Abbiamo avuto il grande onore e l’altrettanto grande piacere di fare quattro chiacchiere con Vanni Santoni (Personaggi Precari, Muro di Casse), autore del recente La Stanza Profonda, edito da Laterza e candidato al Premio Strega 2017, libro che racconta una società sempre più tecnologica e virtuale attraverso la lente di ingrandimento dei giochi di ruolo, dei relativi giocatori e della loro cultura generazionale. Ecco com’è andata, nel nostro resoconto dell’intervista.
Negli ultimi anni il Premio Strega si è aperto alla narrativa altra, avendo anche in ben due casi dei graphic novel nelle dozzine finali, ma credo sia la prima volta che un romanzo ibrido come il tuo, che parla di giochi di ruolo, raggiunga il grande pubblico come candidato a quello che è sicuramente il premio letterario più conosciuto e più discusso d’Italia. Come stai vivendo questa esperienza e che aspettative hai?
Un romanzo che a suo tempo fu definito ibrido, Storia della mia gente di Edoardo Nesi, lo Strega l’ha pure vinto. Per quanto mi riguarda, tendo a rifiutare una simile definizione: così come Storia della mia gente mi è sempre sembrato un romanzo, ancorché forte di elementi di memoir e saggio, allo stesso modo credo che sia La stanza profonda che il precedente Muro di casse, il quale aveva un apparato bibliografico anche più ampio e addirittura delle appendici, siano semplicemente romanzi. Il romanzo è di per sé un genere che può includere altre forme senza per questo smettere di essere romanzo. Volendo, si potrebbe addirittura sostenere che l’eccezione non sono i romanzi ibridi, bensì i romanzi non ibridi, dato che i primi romanzi moderni sono romanzi enciclopedici e romanzi filosofici. Con l’avvento dell’editoria commerciale siamo arrivati a pensare come “romanzo puro” ciò che presenta solo una vicenda con un inizio, uno sviluppo e una risoluzione, con digressioni ridotte al minimo ma in realtà da sempre il romanzo flirta, e si accoppia, con le liste, con il memoir, con il saggio, con la poesia. Semplicemente, come aveva a dire Gospodinov, “il romanzo non è ariano.” Circa, invece, il fatto che un romanzo su un tema finora sempre considerato di nicchia quali i giochi di ruolo sia finito nella “dozzina” del principale premio letterario italiano, credo sia un’ulteriore conferma della tesi, del resto contenuta nel romanzo medesimo, secondo cui l’immaginario fantasy con tutti i suoi annessi e connessi è diventato ormai mainstream se non proprio egemone.
Nel tuo romanzo prendi spunto da un fatto di cronaca reale, il suicidio di un ragazzo, per descrivere l’incapacità di TV e giornali di comprendere sottoculture come il gioco di ruolo. Nonostante siano passati decenni, ancora oggi le maggiori testate italiane non riescono a parlare di argomenti come fumetti o videogiochi in maniera accurata e non prevenuta. Credi che ci sia una spiegazione per questa deficienza informativa per un campo che comunque smuove l’attenzione di milioni di persone?
I media mainstream, per come sono strutturati – ovvero improntati alla semplificazione e all’isteria – e per le istanze di potere di cui sono portavoce, non hanno mai capito – o meglio non hanno mai tentato di capire – le sottoculture. Quando poi le sottoculture hanno componenti controculturali, allora la demonizzazione è dietro l’angolo. È successo negli anni ’60 coi festival jazz come nei ’90 con i rave, con la psichedelia come con i videogiochi, coi fumetti horror come con i GdR, con i cartoni animati giapponesi: è strutturale. Il libro, invece, essendo un medium lento, è adatto a riportare giustizia, a storicizzare, analizzare e rappresentare in modo più accurato. In Italia ovviamente c’è anche una componente anagrafica: spesso chi lavora nei media mainstream ha una certa età e quindi è ancora più maldisposto verso quelle che, anche quando hanno magari decenni di storia, vengono percepite come “novità”, ma credo che la questione dominante resti comunque il difficile rapporto tra media di massa e complessità. Lo stesso suicidio lo racconto negli Interessi in comune, da diversi punti di vista: lì tutti davano la colpa alle droghe. Ovviamente il personaggio di Loriano non è stato portato al suicidio né dai giochi di ruolo né dalle droghe, così come non si era suicidato per i GdR il ragazzo di Spinea oggetto del caso di cronaca reale a cui mi sono ispirato per quella parte del romanzo.
Alcune delle critiche mosse al tuo romanzo riguardano la rappresentazione dei giocatori, descritti calcando la mano sulla loro alienazione e ricordando spesso che la loro è un’amicizia profonda, ma che nasce e si esaurisce tra le mura dello scantinato in cui giocano. Al di là della dimensione del memoir, perché andare controcorrente in un momento in cui la figura del nerd è rivalutata ed esaltata dal campo dell’intrattenimento?
Uno scrittore deve sempre cercare di andare controcorrente, anche quando parla di qualcosa che ama e ha vissuto. Se si accoda, viene meno al suo compito. Varie cose nel gruppo che ho scelto di mettere al centro della Stanza profonda non sono “tipiche”: avrai notato anche che cominciano, di fatto, a giocare a vent’anni per continuare fino ai quaranta, quando in genere l’età d’oro dei giochi di ruolo è per molti l’adolescenza fino ai venticinque-trenta. Trovo che i punti di vista atipici siano molto più proficui, perché di per sé schivano lo stereotipo, che è il primo nemico della buona narrativa, senza per questo impedire di parlare anche delle questioni centrali. Quando scrissi Muro di casse, ad esempio, pur avendo frequentato la scena free tekno dai suoi albori italiani, il ’96, e conoscendo bene il sapore speciale che avevano i party di fine anni ’90 scelsi deliberatamente di porre il nodo centrale degli eventi del libro a metà anni zero: non mi interessava compiacere turisti o veterani, mi interessava trovare la posizione migliore per raccontare, che non è mai quella più prevedibile o moderata. Poi, come tu stesso accenni, mi interessava anche analizzare quel processo per cui, via via che la vita adulta prende sempre più spazio e tempo, alcune persone finisci per frequentarle solo per le attività comuni che praticate insieme, e se questo va avanti per molto tempo poi può capitare di non riconoscersi, o di scoprirsi improvvisamente diversi, come se il tempo fosse passato di colpo: è qualcosa che nella Stanza profonda riguarda anche lo scenario generale, dato che l’altro tema forte del libro è la provincia italiana e il modo in cui è cambiata negli ultimi trent’anni.
Parlando di storytelling, nel romanzo affermi che “se devi scrivere un libro, le logiche del gioco di ruolo diventano inutili [perché] nei GdR chi gioca è fruitore e autore assieme, e solo quando è a sistema con gli altri”, tuttavia il ruolo del Master è quello del creatore di mondi e il tuo esordio con Personaggi Precari ricorda un po’ la genesi delle schede personaggio all’origine di ogni GdR. Ci sono aspetti del gioco di ruolo che ti hanno aiutato nel tuo lavoro di scrittore?
La penso più o meno come il protagonista della Stanza profonda, e a differenza sua ho le prove: ho fatto il dungeon master per ventisette anni e di tutte quelle ambientazioni, di quei mondi, di quegli infiniti personaggi – non solo fantasy: ho scritto anche campagne realistiche, noir, horror, storiche, cyberpunk, postnucleari… – non ho mai potuto usare niente nei miei libri. Niente! Ammetto che quando mi misi al lavoro su Terra ignota, il mio primo romanzo fantastico, un po’ ci speravo… Ma ben presto, a parte alcune suggestioni tematiche, che però hanno a che fare con mie passioni esterne che influenzavano le campagne che scrivevo come hanno influenzato i miei libri, mi sono reso conto che non potevo utilizzare niente perché i materiali di un mondo fantasy concepito per essere giocato rispondono a esigenze diverse da quelli di un mondo fantasy concepito per essere raccontato. Mi è stato fatto notare che in realtà il progetto di scrittura collettiva SIC, da cui è sgorgato il romanzo storico In territorio nemico, viene direttamente dai GdR dato che il rapporto tra compositori e scrittori nel processo di scrittura regolato dal metodo SIC è analogo a quello con cui dungeon master e giocatori producono le loro narrazioni collettive. È vero. Così come potrebbe essere vero quello che dici: forse, senza l’abitudine a tracciare mini-schede icastiche per infiniti PNG da usare nel gioco, magari non mi sarebbe venuta l’idea alla base di Personaggi precari.
In un romanzo realistico, a tratti saggistico, compare improvvisamente un fantasma che spezza violentemente l’atmosfera di credibilità costruita fino a quel momento. Si tratta di un espediente per affermare la supremazia della fantasia dei GdR sulla ricostruzione fittizia dei LARP?
Quella apparizione può essere interpretata in vari modi. Molti ci vedono un fantasma, ma molti altri lettori ritengono che si tratti di un figurante, un pazzo o un amico di Gygax che lo “interpreta”. Altri ancora che fosse sbagliata la data sulla placca e che i personaggi si siano suggestionati. Un commentatore, devo dire davvero molto raffinato, ha lanciato l’ipotesi secondo cui il Paride, afflitto da un male potenzialmente letale e quindi di fatto tra la vita e la morte, si è trasformato in una sorta di psicopompo, di mediatore tra il campo dei vivi e quello dei morti, che, grazie a una “componente materiale” a elevato livello di potere evocativo (la Woodgrain box) è riuscito a sovrapporre il piano in cui sono vivi i suoi amici e quello in cui è vivo Gygax. O forse, chissà, quel viaggio è solo un’aspirazione del master/narratore che ci viene raccontata come vera da un “narratore inaffidabile” ma è in realtà una sua fantasia. Al di là delle molte possibili interpretazioni, che erano doverose dato che La stanza profonda è, comunque, un romanzo realistico, la prima interpretazione che dai tu stesso mi pare plausibile: con l’introduzione di una simile possibilità si sancisce la supremazia dell’immaginazione sulla presunta “realtà”, introducendo anche un elemento metafisico che rimanda alla confidenza col fantastico propria di molte ambientazioni di GdR.
Verso la fine del libro definisci D&D una controcultura basata sulla cooperazione e la fuga dalla sottomissione a qualsiasi autorità tranne quella di regole scelte assieme, trovando punti di contatto tra i GdR e i partecipanti ai rave, argomento esplorato nel tuo precedente lavoro, Muro di Casse. Sai di essere riuscito, con una sola frase, a far infuriare sia i giocatori che i raver?
Sia nel tour di Muro di casse che in quello, attualmente in corso, della Stanza profonda ho incontrato, piuttosto, centinaia di raver e di giocatori di ruolo molto felici, principalmente per l’essere stati finalmente rappresentati dall’interno da qualcuno che quei mondi li aveva vissuti direttamente. Né sono l’unico ad averli vissuti entrambi: per quanto l’accoppiata possa sembrare inusuale per le ovvie differenze tra le due sottoculture, ho trovato almeno una decina di persone che le avevano vissute con intensità entrambe – del resto hanno coinvolto masse considerevoli di persone e le loro epoche d’oro, in Italia, sono sfalsate di meno di dieci anni. A livello di contenuto, i principali punti in comune tra free party e giochi di ruolo, oltre a quelli che tu stesso citi, sono la loro natura prettamente rituale, che li differenzia dalle forme “semplici” di intrattenimento; il loro essere fuori dal consumismo che domina, pure, nell’intrattenimento di massa, così come da modalità temporali delimitate dal tempo del lavoro; la loro natura non competitiva e la trasversalità sociale; l’avere, infine, al centro del proprio focus la creazione di mondi altri, che lo si faccia con musica ritmata, psichedelici e entactogeni, o con dadi, schede e matite. Graziano Graziani di Radio 3 ha parlato di “nicchie dove è andato a nascondersi il desiderio utopico contemporaneo” e mi pare un’interpretazione condivisibile – oltre ad essere una buona spiegazione ulteriore del perché tanto i rave quanto i GdR non hanno mai goduto di buona stampa.
Siamo una generazione dilaniata dal desiderio di restare e il bisogno di partire, una dicotomia che esprimi bene nel tuo libro raccontando di aver pensato più volte di lasciare l’Italia: “ma non sarebbe stato spaventoso, poi, rientrare? Se ti capita di dover tornare, hai bisogno di un’Itaca, non di una Mordor”. Restando in metafora, però, non ci dimentichiamo che Frodo è stato costretto ad andare a Mordor, ma che alla fine ha passato gli anni della pensione a Valinor. Insomma, dobbiamo continuare a sperare?
Premesso che, per un Frodo, Valinor non è altro che il Paradiso, quindi di fatto la morte, quella tensione presente nella Stanza, ma anche in Muro di casse e certamente in Se fossi fuoco arderei Firenze, il mio primo romanzo per Laterza che era quasi tutto giocato su quel tema (e che – ahi! – a ripensarci si chiude proprio in un bellissimo cimitero), è un dato inevitabile della nostra generazione, ma anche di quella che la precede e di quella che la segue, per tutta una serie di ragioni sociali, storiche e geopolitiche piuttosto evidenti. Torna quindi nei miei libri anzitutto per una istanza di realismo. Ma, sì, dobbiamo certamente continuare a sperare e a lottare. Per fortuna la nostra “Mordor” non ha un Sauron in mezzo, può sempre tornare fertile se si lavora abbastanza duro – per indole, devi sapere, sono un ottimista, e anche un filo calvinista.
Nel 2013 il primo volume della tua trilogia fantasy, Terra Ignota, è stato accolto come un’innovazione nel panorama della narrativa di genere italiana. Che futuro vedi per il fantasy nel nostro paese e possiamo contare di trovare il capitolo conclusivo della trilogia in libreria entro la fine dell’anno?
Sì, il capitolo finale, che è poi un prequel e si intitolerà L’impero del sogno, uscirà per Mondadori il prossimo autunno, sempre che riesca a concluderlo in tempo, e segnerà uno scarto ulteriore nella mia produzione dato che, avendo il compito di collegare i due Terra ignota (i quali, ancorché intertestuali e metaletterari, sono anzitutto degli heroic fantasy) con la mia “continuity” realistica, sarà quello che normalmente viene chiamato urban fantasy – la definizione è deprecabile, ma ci siamo capiti: elementi fantastici in uno scenario realistico e contemporaneo. Per quanto riguarda la scena fantasy italiana, credo che ci sia anzitutto un gran bisogno di buona critica, di articoli ampi e strutturati sui libri che escono, su quelli che sono usciti, su quelli esteri, sul canone. Questo, al fantasy italiano manca molto: era una mancanza di cui trovai testimonianza quando scrissi un piccolo pezzo sul tema, ormai diversi anni fa, e che, se si eccettua il lavoro che fa su varie riviste Edoardo Rialti, o la guida curata da Claudio Asciuti per Odoya, perdura a tutt’oggi. È evidente che si tratta di un epifenomeno dello stigma che ancora, in Italia, circonda tutta la speculative fiction e il fantastico in particolare: se già molti pensano che siano libri non meritevoli di esser presi sul serio, figurarsi allora lo scrivere articoli seri sopra di essi. Dall’altro lato, il sottobosco dei blog dedicati, per troppo tempo dedito a guerre tra bande o a criticare a testa bassa libri che erano magari già deboli di suo, non ha sopperito a ciò che è mancato da parte della cultura e della critica ufficiale. Nel nostro piccolo, con alcuni appassionati e studiosi, tra cui lo stesso Rialti, abbiamo provato a dare un contributo con una serie di convegni (peraltro nata proprio da quella che avrebbe dovuto essere una presentazione di Terra ignota e denominata scherzosamente Subilime Simposio del Potere), in cui abbiamo affrontato alcuni temi con conferenze dedicate. Da essa, grazie alla curatela di Silvia Costantino, è nato recentemente anche un libro, Di tutti i mondi possibili, che da solo non può certo cambiare le cose ma intanto segna una strada, mostrando che si può parlare di fantasy in modo serio e “accademicamente valido”. Ora non resta che sperare che altri articoli, convegni, libri arrivino a colmare il molto vuoto che abbiamo intorno.