Quando la colpa ti rode il cuore
Da questa estate a oggi abbiamo praticamente perso il conto di tutti gli adattamenti cinematografici che hanno visto coinvolto un’opera di Stephen King. Dalla Torre Nera a It, passando per il Gioco di Gerald, aggiungiamo un nuovo rappresentante delle parole del Maestro in forma di cellulosa: Netflix ci presenta 1922, tratto da una delle quattro novelle che c’erano in Full Dark, No Stars, raccolta pubblicata nel lontano 2010.
Delle quattro storie, questa è la terza a essere trasposta in film e il risultato è decisamente apprezzabile.
Nel profondo Sud
La storia di 1922 racconta di Wilfred James e di quello che fa nel fatidico anno eponimo insieme a suo figlio Henry per mettere a tacere le velleità di indipendenza e emancipazione della sua moglie Arlette.
La donna infatti si è messa in testa di voler vendere la sua parte di terreno in quel pezzo di paradiso che è Hemingford Home, Nebraska, per poi divorziare e trasferirsi in città, a Omaha, per aprire un negozio di vestiti. E Henry sarebbe stato al suo fianco, perché un ragazzo della sua età non può stare lontano dalla madre.
Wilfred vede tutti i suoi sogni da contadino cresciuto come un contadino infrangersi in un solo momento. Tutto quello che aveva programmato – vivere felice dei frutti della terra, allevare i suoi nipotini e lasciare il suo terreno in eredità al figlio cresciuto con le sue stesse convinzioni – si dissolve in un battito di ciglia. La comfort zone di Wilfred è minacciata dai pensieri inconsueti e inopportuni di Arlette.
Non gli resta molto da fare: deve eliminare il problema alla radice e per fare questo coinvolge anche il suo ragazzo, condannandolo alla dannazione, esattamente come lui.
Perché di questo parla 1922: non è l’omicidio in sé, che è una tragedia e un casino incredibile, non è neanche l’idea di farla franca, no, il cuore nero e pulsante al centro di questa storia turpe è quello che l’omicidio deposita all’interno dell’animo umano, quel piccolo germe di oscurità che cresce fino a divorare tutto.
La trama del film (e della novella) è estremamente lineare e descrive i giorni a seguire dall’omicidio, mentre Wilfred cerca di venire a capo delle sue azioni, vittima della sua stessa follia, mentre il dolore e la colpa per quel che ha fatto scavano sempre più in profondità dentro di lui, liberandolo dalla sua stessa umanità. Come una malattia contagiosa, le conseguenze della morte di Arlette si riverseranno sui suoi cari e sui suoi vicini, alimentando il suo senso di colpa, sempre più caustico e bruciante.
Origini rurali
Il tema principale sviluppato in mille declinazioni differenti è proprio quello della colpa, in un impianto narrativo che ricorda molto il Cuore Rivelatore di Poe. Nonostante le sue convinzioni, nonostante l’idea di aver compiuto la mossa giusta, Wilfred si sente quasi braccato dai ricordi Arlette, per niente decisa a lasciarlo andare.
Il protagonista di 1922 si ritrova quindi catapultato in un vero e proprio incubo, dove a piano a piano emergerà tutta l’assurda follia del suo piano, e lui stesso ne pagherà il prezzo. Di contorno, lungo la strada della sua casa a Hemingford Home scorrerà la vita di un’epoca passata in cui la terra rendeva felice un uomo e possederla era la cosa più importante per chiunque e per la terra un uomo avrebbe fatto qualsiasi cosa. Wilfred è ossessionato da questa convinzione e la sua mente chiaramente al limite della follia viene completamente spezzata quando il mondo così come lo conosce viene messo in crisi dalla mentalità di Arlette, trasformandolo in un pazzo omicida.
Si potrebbe dire che Wilfred è pazzo e che gli avvenimenti che lo riguardano non siano altro che una conseguenza di un imprinting sociale che non gli avrebbe mai dato scampo. Sicuramente c’è tanto dietro il personaggio di Wilfred: incarna il desiderio di rimanere ancorati alle tradizioni, di continuare a seguire le orme dei propri predecessori e inculcare lo stesso credo in quelli che verranno dopo. Lui è il prototipo del capo di una famiglia patriarcale, dove l’uomo si occupa della propria moglie e dei figli, costi quel che costi, convinto che quello che accade tra le mura domestiche resta lì per sempre.
Nell’economia del racconto, la durezza d’animo del protagonista, le sue vistose cicatrici dell’anima, non fanno altro che accrescere la sua inadeguatezza sociale, e lasciano emergere il lato folle e tormentato del suo io più oscuro. Lo vediamo sicuro di sé e forte in mezzo ai suoi famigliari, nella sua fattoria, ma è impacciato e timido fuori, nel mondo esterno, sempre colto a stropicciare il suo cappello, gli occhi bassi, sulla difensiva.
D’altro canto, Henry, suo figlio, complice di questa nefandezza, ne resta profondamente ferito, e viene trascinato in un vortice di brutte scelte e conseguenze ancora peggiori, provocando ancora più dolore a suo padre già fortemente provato.
Come personaggio secondario, ha una sua tridimensionalità e una sua vitalità ben costruita. E se da una parte sembra lasciarsi irretire facilmente dalle decisioni sbagliate del padre, dall’altra è anche il primo a non voler cambiare il corso delle cose. Avrà momenti di pentimento e di amarezza, attimi in cui avrebbe voluto non essere neanche nato, fino a odiare il padre, senza però mai rinunciare alla parte di colpa che gli spetta. Anzi, trarrà forza da quel che dentro lo rode, per lanciarsi nella sua impresa disperata.
E Arlette? Lei è sempre presente in questo racconto, anche se si vede per pochissime inquadrature. È un personaggio costruito con i riflessi degli altri che la circondano. Non viene mai mostrata davvero per quello che è stata, per quello che è, ma solo per quello che vuole essere: una donna emancipata e indipendente, con l’idea di gettarsi dietro le spalle la vita di fattoria, fatta di limonate né troppo dolci né troppo amare e trattori scoppiettanti, per puntare tutto sulla città, per vivere la vita così come la concepisce. La bellezza (e nello stesso tempo la maledizione) di questo personaggio è quella di essere vista sempre e solo attraverso gli occhi del protagonista, su cui vengono scaricate le frustrazioni di un uomo che non riesce a staccarsi dalle tradizioni e che non sa cosa vuol dire affrontare il futuro. Non sappiamo se Arlette sia o no una buona madre, non possiamo neanche immaginare se quello che vuole per il figlio sia effettivamente giusto, perché tutto quello che lei è non traspare mai, completamente ricoperto dal ruolo di madre e moglie che la società in cui vive e suo marito le cuciono addosso. Lo stesso Wilford è sorpreso dalle pretese di Arlette, come se non si fosse mai accorto di vivere con lei, come se fosse la prima volta che se la ritrova davanti e così la prima reazione verso qualcosa di nuovo è appunto la paura, a cui segue la violenza.
Arlette ritorna anche come figura soprannaturale, ma non è la bieca rappresentazione di uno zombie, ma ha una funzione ancora più agghiacciante, con l’unica motivazione di rendere ancora più difficile la vita di Wilfred.
1922 è molto una discesa agli inferi senza redenzione, ma dove la dannazione di un’anima è vista come un evento che con effetto domino si porta dietro quelle di tutti quelli che la circondano. La colpa e il dolore sono i veri protagonisti di questa storia, alimentati dalla difficoltà dell’animo umano di lasciarsi alle spalle i crimini commessi, che in un modo o nell’altro, tornano in superficie, per dirci che i veri zombie sono dentro di noi e risorgono dalle tombe che scaviamo loro con tanta cura, per far finta di dimenticarcene.
Come dice lo stesso Wilfred: We always get caught.
Grano Rosso Sangue
Per raccontare questa storia, il regista Zak Hilditch, già autore di quel piccolo gioiello di The Final Hours, si è avvalso di un registro molto bucolico, con inquadrature totali o campi lunghissimi che mettono in risalto l’immensità e la bellezza delle piantagioni di granoturco del Nebraska, senza tralasciare la bellezza mozzafiato dei tramonti estivi, così rossi da lasciarci gli occhi. Ogni inquadratura di queste serve a indurre il telespettatore a empatizzare con il protagonista, soprattutto di fronte alle poche inquadrature cittadine, che mostrano una Omaha fangosa e popolosa, quasi maleodorante. Di fronte a tutto ciò, è quasi inevitabile pensare che forse Wilfred abbia ragione a non voler andar via e fa quasi ricredere sulla giustezza morale dei fattacci di Hemingford Home.
A questo aggiungiamo la scelta di mettere in scena la presentazioni dei personaggi come in posa per qualche scatto fotografico d’epoca, mentre la voce fuori campo di Wilfred racconta la sua storia, in un modo quasi vintage per generare quell’empatia nei confronti dei protagonisti, mostrandoli sorridenti e cristallizzati in un momento di felicità.
Il film non sarebbe stato però così bello senza la prova di Thomas Jane, qui praticamente in stato di grazia. Recitato in un accento del sud strettissimo (vedetelo in lingua originale), Jane si muove perfettamente a suo agio nel personaggio di Wilfred, navigando tra i suoi stati d’animo sempre più oscuri e tormentati, in una convincente interpretazione di omicida in cerca di una redenzione che non verrà mai. Arlette ha il volto Molly Parker (che già avevamo visto in House of cards e che ci aspetta nel reboot di Lost in Space, l’anno prossimo), ma il suo personaggio è così diafano da lasciarle poco spazio per esprimersi. La sua interpretazione di donna emancipata, e poi un po’ morta, è discreta per quel che si vede, anche se i momenti di contrasto con il marito sono una gioia per gli occhi (si fa per dire), vista la sinergia tra lei e Thomas Jane.
Henry è interpretato dal giovane e canadese Dylan Schmid, che si muove agevolmente davanti alla macchina da presa e riesce ad affrontare il ruolo con una buona sensibilità, dando una certa tridimensionalità al suo personaggio.
Verdetto
Tutto sommato, 1922 non delude, se lo si affronta per quello che è: una storia triste di delitto e punizione, di tormenti dell’anima e struggimento del cuore. Se credete che questo sia un film dell’orrore, con gli zombie, lo splatter e altri effetti grandguignoleschi, allora siete completamente fuori strada. L’idea del film è quella di esplorare il punto di rottura di un animo sottoposto a una tortura psicologica autoinflitta, sondarne la sofferenza e le conseguenze che ne derivano. Anche quelle sequenze che sembrano soprannaturali, restano sempre sospese tra un’interpretazione esoterica e la più terrena visione da delirio di follia, una piccola porta che si schiude su quell’inferno freddo e denso che è la mente di Wilfred.
È una pellicola volutamente lenta, nel senso che a parte la sequenza dell’omicidio, non ci sono altre scene d’azione, ma è tutta giocata su una profonda introspezione, resa bene dal mix di voce fuori campo e bei passaggi narrativi. La linearità della trama lascia libero campo a Thomas Jane di dare davvero il meglio di sé, regalandoci un Wilfred incredibile. Certo esistono dei difetti, come quello di non dare abbastanza spazio alla figura di Arlette, mostrata come un riflesso nello specchio, ma lo stesso, il film intrattiene e si lascia vedere fino al suo epilogo. Sicuramente non è un capolavoro, ma visto quel che siamo abituati a guardare quando si tratta di film tratti da racconti di Stephen King, 1922 è un buon prodotto che merita il vostro tempo.