Probabilmente il nome di William Friedkin (regista, sceneggiatore e produttore cinematografico statunitense), escludendo i cinefili più accaniti e i fan veri e propri, non dirà molto alla maggior parte delle persone. Anche per questo noi di Stay Nerd abbiamo deciso di dedicare a questa figura storica uno speciale che raccogliesse (e raccontasse) alcuni dei suoi lavori migliori nonché, nella nostra opinione, i suoi migliori 5 film.
Ma prima una premessa è d’obbligo: Friedkin non è un regista semplice da affrontare, e non lo è tanto per una questione di ermeticità poetica o per via di una messa in scena tortuosa e/o delirante, lo è soprattutto per il particolare tocco, spirito e alone d’ombra che permea le sue pellicole. Parliamo di una produzione che, pur poggiando su strutture narrative di genere e su una quadratura e perizia tecnica notevoli quanto classiche, cerca di rappresentare senza filtri (che non siano quelli autoriali) né censure l’ambiguità presente nella società moderna così come in tutti noi, e quelle impercettibili sfumature esistenziali che separano, e contemporaneamente confondono, il giusto dallo sbagliato, il bene dal male.
Il braccio violento della legge (1971)
Vincitore di ben 5 Premi Oscar, tra cui Miglior Film, Miglior Regia e Miglior Sceneggiatura Non Originale, e 3 Golden Globe, Il braccio violento della legge (titolo originale: The French Connection) narra le vicende di due investigatori della Narcotici, Jimmy Doyle (interpretato da un incredibile Gene Hackman) e Buddy Russo, e il loro tentativo di fermare una spedizione di eroina proveniente da Marsiglia e diretta a New York. L’indagine, complessa e osteggiata dai superiori, ben presto si trasformerà in una vera e propria ossessione, portando i due poliziotti a comportamenti tutt’altro che ortodossi e al limite dell’illegalità. Pedinamenti estenuanti, rallentamenti ed improvvise esplosioni nel ritmo (come lo spettacolare inseguimento) trovano in un finale sospeso una perfetta sintesi di tutto ciò che il film mira a rappresentare: la trasformazione morale ed etica di personaggi (tanto i poliziotti quanto i criminali veri e propri) dalla personalità tutto fuorché univoca e cristallina, in una città corrotta da un male (la criminalità?) dal quale non c’è via di fuga.
L’esorcista (1973)
L’esorcista è un film che non ha bisogno di presentazioni né tantomeno di spiegazioni riguardanti la vicenda rappresentata. Film cult del genere horror, anche se il regista affermò più volte che concepì la pellicola più come una sorta di documentario su un caso di possessione, e d’altra parte la componente più splatter e scioccante esplode solo nel finale, è il più grande successo commerciale del regista (successo riemerso con la versione estesa voluta dall’autore del romanzo, William Blatty, negli anni 2000). La pellicola ripropone sotto la chiave archetipica della religione alcune delle tematiche più care alla poetica autoriale del regista, in particolare la lotta fra il bene e il male. In questo caso specifico, Friedkin procede prima alla costruzione di un credibile e perfettamente normale contesto sociale/familiare, per poi far piombare su di esso una situazione anomala e inspiegabile. Un sentimento oscuro, teso ed instabile scorre sotterraneamente lungo tutto il film, amplificando ancora di più la sensazione di disagio e di mistero che pervade lo spettatore.
Il salario della paura (1977)
Dopo aver raggiunto l’apice del successo di critica e di pubblico con L’esorcista, Friedkin decide di impegnarsi in un progetto destinato a cambiare per sempre la propria carriera. Il salario della paura (titolo originale: Sorcerer) si presenta come un remake del film italo-francese Vite vendute, tratto dal romanzo di Georges Arnaud del 1950, Le salaire de la peur, e narra le vicende di quattro personaggi dalle storie differenti che, per riuscire a trovare i soldi per fuggire dal piccolo villaggio sperduto dell’America centrale in cui si trovano bloccati, decidono di affrontare un pericolosissimo viaggio a bordo di due camion pieni di dinamite. Il viaggio si rivelerà più difficile del previsto e un finale amaro chiuderà i conti. Le innumerevoli difficoltà di ripresa, i problemi con troupe e attori, nonostante un budget faraonico per i tempi, purtroppo per il regista minarono ogni possibile riscontro positivo presso pubblico e critica (che però lo rivalutò negli anni successivi). Il salario della paura fu un enorme flop, figlio della visione tracotante e allucinata di Friedkin, ma cionondimeno capace di mettere in scena un senso di precarietà, tensione (basti pensare alla scena dell’attraversamento sul ponte) e terrore davvero unici, tanto da trasformarlo comunque e col tempo in un cult.
Cruising (1980)
A seguito di una serie di omicidi che sembrano collegabili ai locali gay di New York, la polizia decide di infiltrare un proprio agente (Steve Burns, interpretato nientepopodimeno che da Al Pacino) per riuscire a scoprire l’identità del serial killer e porre fine ai tremendi delitti. L’indagine non si rivelerà affatto facile, non solo per la difficoltà di integrarsi in quegli ambienti ristretti e diffidenti nei confronti degli estranei ficcanaso, ma anche per il processo interiore che porterà Burns a riflettere intorno al proprio orientamento sessuale, alla propria vita e alla relazione con la fidanzata. Un percorso che prosegue di pari passo con la ricerca di indizi e che si concluderà nuovamente con un finale ambiguo, sospeso, a metà. Anche questa volta Friedkin realizza un film che non ha paura di esplorare situazioni lontane dagli occhi di tutti, senza nessuna volontà di autocensurarsi né di limitare la propria analisi. Proprio per questo il film, già prima della sua uscita, subirà un’ondata di proteste da parte della comunità gay, convinta che la pellicola promuovesse odio e stereotipi contro tale minoranza, e, successivamente, incorrerà nel cappio della censura scandalizzata dalle crude ed esplicite scene di sesso e di violenza presenti. Lo stesso Friedkin, tuttavia, ammise di aver volutamente esagerato un po’ in quei frangenti, proprio per far sì che quelle parti venissero eliminate e salvaguardare contemporaneamente il resto delle scene. Un furbacchione.
Vivere e morire a Los Angeles (1985)
La doppietta di insuccessi avuta con Il salario della paura e Cruising non impedisce a Friedkin di girare un nuovo film. Parliamo di Vivere e morire a Los Angeles, ispirato all’omonimo romanzo scritto dall’agente segreto Gerald Petievich, il quale segna non solo il ritorno al poliziesco da parte del regista ma anche al successo di critica che ben ne evidenzia le qualità e la capacità di riscrivere le regole del genere stesso. La trama vede l’agente federale Richard Chance (interpretato da William Petersen) dare la caccia al pittore e falsario Eric Masters (interpretato da Willem Dafoe), colpevole di aver assassinato il suo ex collega. Anche qui, come ne Il braccio violento della legge e nei film successivi, vediamo riproporsi alcuni dei temi molto cari a Friedkin: l’ambiguità che separa il bene dal male, l’analisi dell’ossessione umana, la centralità della violenza e la realizzazione di un cinema distruttivo dove le peggiori pulsioni prendono il sopravvento. Utilizzando i simboli dell’arte e del denaro (quindi in questo caso della falsificazione), il regista pone l’attenzione sul processo di mercificazione dell’arte, dell’industria cinematografica, e sulla sovrapposizione fra autentico e inautentico, tra vero e falso, che regolano ogni comportamento sociale e personale. Quello che rimane alla fine è la rappresentazione lucida, quant’anche spinta verso vette lontane dal realismo documentaristico sempre presente nelle sue opere, e spietata di una città schizofrenica dove tutto accade nell’apatia più totale e dove la solitudine dell’uomo di fronte alla crudeltà del mondo è ormai definitiva.