« In un buco del terreno viveva uno Hobbit »
Stabilire quando sia iniziata la letteratura fantasy è impresa difficile. Potremmo tornare indietro all’infinito, cercando in Ariosto, Dante, Ovidio e Omero dei precursori del genere.
Di sicuro è possibile individuare alcuni punti di svolta all’interno della letteratura fantastica. Uno di questi ha una data ben precisa, quella del 21 settembre del 1937. Il giorno in cui il mondo conobbe, per la prima volta, l’esistenza dei mezzuomini, in cui i primi esploratori del fantastico iniziarono ad ispezionare la Terra di Mezzo in compagnia di Bilbo Baggins e dei nani di Erebor, sotto la guida di Gandalf. Il giorno in cui fu pubblicato Lo Hobbit.
Discutere di quanto sia stato importante questo romanzo per l’epopea di Arda non è affatto semplice. Specie considerato quanto questa opera venga, a torto, considerata come qualcosa di minore all’interno dell’intera produzione di John Ronal Reul Tolkien.
Certo, lo Hobbit se paragonato alla lunghissima genesi del Silmarillion e alla maestosità del Signore degli Anelli ci appare come qualcosa di meno rilevante. Come spesso accade, si tende a dare più importanza alle “questioni” degli adulti, a scapito di quelle dei bambini. Eppure senza lo Hobbit, senza l’incredibile successo ottenuto dai quattordici membri della compagnia di Thorin Scudodiquercia, oggi non avremmo il fantasy così come lo conosciamo.
In effetti lo Hobbit rappresenta l’infanzia dell’High Fantasy. Quei primi passi che i bambini compiono da soli, mano nella mano coi genitori, quelle prima parole scritte a scuola, i primi piccoli grandi esami sostenuti nella vita. Senza queste prove non saremmo ciò che siamo oggi. Senza lo Hobbit, il fantasy non sarebbe quello che conosciamo.
Correggendo i compiti…
Abbiamo già avuto modo di parlare, in passato, di come nacque la grande storia della Terra di Mezzo. Non ci è stato difficile immaginare il momento in cui, magari sotto un bombardamento nemico da cui pensava di non avere scampo, oppure mentre era in ospedale a riprendersi da qualche malattia, o ancora mentre osservava lo squallore della trincea, un giovane sottotenente dei Fucilieri del Lancashire abbia iniziato a pensare ad un mondo migliore, trovando un rifugio nella propria mente.
Ma fu solo tornato a casa che cominciò a mettere su carta i suoi pensieri dando loro, poco alla volta, anima e inchiostro. La creazione di Arda fu un processo lunghissimo, ma realmente completato, come testimoniato dal continuo lavoro e dalla pubblicazione postuma dell’opera magna del Professore, il Silmarillion. Nonostante questo lavoro lo abbia assorbito per tutta la vita, mentre scriveva quella che doveva essere la mitologia stessa dei popoli britannici, ci furono momenti in cui Tolkien aveva altre intuizioni, altre idee che dovevano essere messe su carta. Tra queste ci fu quella che gli venne in mente, per puro caso, quando il Professore si ritrovò tra le mani un compito lasciato in bianco da una delle sue studentesse. Non si sa come il pensiero gli sia venuto. Improvvisamente, di getto, qualcosa scattò in lui, prese la penna (o, più probabilmente, la matita) e scrisse su quel foglio privo di inchiostro ciò che sarebbe diventato uno degli incipit più famosi della storia. “In a hole in the ground there lived a Hobbit”.
Siamo alla fine degli anni venti e Tolkien è già padre di quattro figli (l’ultima, Priscilla, era nata nel 1929). Il Professore aveva spesso dedicato alla sua famiglia diverse opere. Per Michael aveva scritto Roverandom, e ogni Natale scriveva ai propri bambini delle lettere firmandosi Babbo Natale.
Quell’opera, fatta di nani, elfi, stregoni, orchi e draghi, accompagnati da un piccolo e fragile hobbit, nacque così per loro, concepita come una lunga fiaba della buona notte da raccontare poco alla volta, nel corso di diverse serate con i propri piccoli.
Solo nel 1936 la storia aveva preso corpo dopo un numero consistente di revisioni. Per l’abitudine di Tolkien di scrivere pochissimo a macchina e prendere molti appunti con la matita è difficile ricostruire tutto l’iter dell’opera. Ma, giusto per fare qualche esempio, nelle idee iniziali di Tolkien Gandalf doveva essere il nome del re dei nani, il drago doveva chiamarsi Pryftan e lo stregone guida del gruppo si sarebbe chiamato Bladorthin.
Fatto sta che quello stesso anno il manoscritto giunse nella redazione della Allen & Unwin, lo storico editore che avrebbe anche pubblicato il Signore degli Anelli. L’editore affidò la recensione del romanzo al figlio di dieci anni, come era solito fare con tutti le opere per bambini che arrivavano sulla sua scrivania. Chi meglio di lui, dopotutto, poteva apprezzare un libro per bambini?
Il responso fu favorevole. L’anno seguente, il 21 settembre del 1937, il mondo conobbe Lo Hobbit. E fu un successo incredibile, al punto che già prima di Natale la Allen & Unwin ordinò una ristampa del libro.
Le vicende di Bilbo Baggins e dei nani di Erebor alla riconquista della loro avita dimora sono una storia capace di conquistare grandi e piccini. Un racconto di coraggio e avventura senza tempo, con scene in grado di suscitare il sorriso in maniera semplice ma mai banale. Sfuggendo a troll, orchi e lupi mannari, cavalcando i barili a costo di un brutto raffreddore, affrontando un drago con astuzia e sopravvivendo a una crudele battaglia, il piccolo Bilbo, così simile al suo autore, trovava la via per raggiungere il tesoro di Erebor e tornare a casa. E con lui lo facevano i bambini, intenti a leggere il romanzo o, ancora meglio, ad ascoltarlo per bocca del proprio genitore.
Quello che c’era dietro a una storia pensata come una fiaba della buona notte da raccontare in più serate era però molto più grande di quanto si potesse pensare. C’era la rielaborazione di grandi saghe nordiche come Beowulf e la Vǫluspá miscelate con gli archetipi della fiabe dei fratelli Grimm, in un’avventura che nonostante la sua semplicità riusciva a porre in risalto le doti di Tolkien come filologo.
E il successo del pubblico non tardò ad arrivare, tanto che lo stesso anno la casa editrice propose a Tolkien un seguito.
…e correggendo la storia.
Ed è qui che la storia del genere fantasy cambia profondamente.
Il Professore non aveva un seguito nel cassetto. Il suo progetto, probabilmente, era quello di riprendere il Silmarillion, concludere quella che noi oggi conosciamo come la History of Middle-Earth e portare così a compimento la fatica di una vita intera. Di fronte all’insistenza del suo editore Tolkien accettò e iniziò a scrivere, e già il giorno di Natale del 1937 il primo capitolo del nuovo libro era finito.
Ma quale libro era? Questa non è una domanda banale. Semplicemente perché lo Hobbit, almeno all’inizio, non era parte dei grandi eventi della Terra di Mezzo. Tolkien vedeva le avventure di Bilbo come qualcosa di separato dall’epoea che aveva preso a creare più di dieci anni prima. Dopo aver scartato l’idea di mandare il suo piccolo hobbit in cerca di nuovi tesori, non volendo trasmettere ai bambini che il fine della vita fossero solo i tesori, probabilmente passò parecchio tempo a scervellarsi su cosa avrebbe potuto creare.
A quel punto, forse, poteva unire ambizioni personali e dovere. Poteva far diventare gli Hobbit parte integrante delle saghe della Terra di Mezzo. E forse fu allora che si ripensò a quando Bilbo sconfisse Gollum nel gioco degli enigmi, quando l’anello era solo un anello e non l’Anello.
Fu questo a far cambiare tutto. Tolkien si convinse a immettere quell’oggetto che, in apparenza, sembrava essere soltanto una cosa minore, un piccolo deus ex machina tipico di tutti i romanzi per l’infanzia, decidendo di stravolgerne il ruolo e il significato. Tolkien prese così a modificare il suo romanzo. Complice la lunga stesura negli anni della guerra, il Professore presentò la sua prima versione come una piccola bugia raccontata da Bilbo per non dire la verità sull’Anello, inserendosi così di fatto nella Storia Della Terra di Mezzo.
Si tratta di un vero e proprio lavoro che oggi definiremmo di “retcon”. Per rendere tutto al meglio, sia nella prefazione che nelle Appendici del Signore degli Anelli il Professore progettò di mettere alcune parti riguardanti la Cerca di Erebor, ovvero le motivazioni che spinsero Gandalf a muovere i fili per poter sconfiggere il drago Smaug ed evitare che esso potesse allearsi con Sauron. Tutto per quello che viene definito un “incontro fortuito”.
La scelta di Tolkien fu senza dubbio coraggiosa: all’editore che gli chiedeva di scrivergli il seguito di un libro per bambini lui propose un testo maestoso, figlio di quella stessa opera così innocente. Qualcosa che noi, oggi, non possiamo etichettare come letteratura per l’infanzia. In un certo senso l’opera era cresciuta, lo stesso Tolkien, nella sua scrittura, era cresciuto.
E probabilmente il genere stesso, quell’High Fantasy che tanta fortuna e tanti epigoni ha avuto nel corso dei decenni, ha trovato così la sua dimensione, lasciando la mano di quel Professore che gli aveva fatto da padre, quando in un assolato pomeriggio estivo una semplice matita vergò su un compito mai concluso una frase, apparentemente senza senso, che per tutti i lettori di fantasy rappresenta oggi il primo seme gettato in quello che sarebbe divenuta una delle storie più ricche e maestose mai narrate.