Dagli autori di Yakuza uno spin off dedicato all’uomo di Hokuto che omaggia degnamente l’opera cult di Hara e Buronson.
Come molti della mia generazione, Ken Il guerriero rappresenta un po’ un pezzo di cuore, uno dei miti dell’infanzia per i quali in qualche modo, si prova amore e rispetto per tutta la vita. Una vita nella quale, se si è anche appassionati di videogiochi, ogni tanto sale quella voglia di una degna trasposizione interattiva della saga tanto amata. Hokuto no Ken in tal senso è stata una serie piuttosto sfortunata. Certo, qualcosa di buono è stato fatto, come il picchiaduro ad incontri di Arc System di qualche tempo fa. Personalmente ricordo con molto affetto anche il famoso arcade da sala in cui si doveva scazzottare letteralmente i cuscinetti del cabinato simulando i colpi di Hokuto (che sudate!). Ma è troppo poco, e soprattutto si trattava di giochi che riprendevano personaggi ed riferimenti al manga/anime in maniera troppo estemporanea.
In mezzo al resto dei prodotti scadenti su licenza, per rimembrare un gioco che veramente mi entusiasmò sul personaggio, devo tornare al lontano 2000 quando su PSX uscì un gioco dall’improbabile e quasi impronunciabile titolo di Seikimatsu Kyuuseishu Densetsu, sviluppato da una Bandai in sorprendente stato di grazia, vista la qualità media dei suoi titoli dell’epoca. Ebbene questo Fist of The North Star: Lost Paradise di cui ci accingiamo a parlare, pur strutturalmente figlio della serie Yakuza da cui gli stessi autori hanno prelevato lo scheletro principale, sembra quasi l’erede spirituale di quel vecchio titolo se inquadrato nel panorama di videogiochi dedicati al guerriero dalle sette cicatrici, ovviamente con tutte le migliorie ed evoluzioni del caso.
Ma se Seikimatsu Kyuuseishu Densetsu ripercorreva pedissequamente le vicende di Hokuto no Ken in ogni loro sfaccettatura, lo Yakuza Team ha deciso di fare qualcosa di diverso, qualcosa che ha portato con sé dei pro e dei contro. Lost Paradise infatti offre un ibrido narrativo tra riferimenti alla storia originale ed eventi inediti interessante, ma solo in parte riuscito. Il gioco comincia da un momento abbastanza iconico del manga: Kenshiro raggiunge il palazzo di Shin per sconfiggerlo e recuperare così l’amata Yulia. Dopo lo scontro con lo storico rivale però, e una volta scoperto che Yulia è ancora viva ma dispersa da qualche parte, tutto cambia radicalmente. Ken raggiunge allora la città di Eden, ultimo paradiso in una terra arrida e selvaggia nel contesto post atomico che conosciamo fin troppo bene, ove si rimandano le ultime tracce conosciute di Yulia. Questa città popolosa e ricca di attività, in cui proliferano mercanti, bar, dove la gente trova occasione anche per svagarsi e distrarsi dalla desolante condizione in cui il mondo si trova, dona al gioco un’atmosfera meno drammatica rispetto all’opera originale. Questo stemperamento dei toni coinvolge il contesto narrativo in toto, basti pensare allo stesso Ken che si ritrova talvolta in situazioni quasi ironiche e si trova suo malgrado ad essere un personaggio meno taciturno e solitario di quello che ricordavamo.
Premettiamo che questa licenza presa dagli autori, questa reinterpretazione del lavoro di Tetsuo Hara e Buronson, non ci è dispiaciuta affatto. I motivi sono presto detti: innanzitutto è piuttosto rispettosa della sua fonte di ispirazione originale e cerca di non eccedere in maniera esagerata nello snaturare la natura del manga. La città di Eden è comunque narrativamente contestualizzata in maniera credibile, per giustificare quello che è. Ci sono delle leggi, delle regole e delle motivazioni dietro la sua esistenza. La violenza, la crudeltà di fondo che si annida nei criminali che si trovano ai margini della società, è sempre presente, così come la disperazione di quanti si trovano a fare una vita di stenti. Tutto questo c’è, anche se viene meno enfatizzato. Inoltre, soprattutto per gli amanti di Kenshiro, trovo sia stimolante avere a che fare con qualcosa di inedito e per certi versi spiazzante, piuttosto che ripercorrere evento dopo evento, una storyline che la maggior parte di quelli che si interesseranno al titolo conoscono a menadito. Il nuovo setting, e le situazioni più eccentriche in cui ci troveremo, vanno infine prese con un po’ di leggerezza: Ken in veste di barman, medico di una clinica o quant’altro sembri un po’ parodiare le doti di dell’uomo di Hokuto in maniera ironica, fanno parte di quello spirito, di quella firma dello Yakuza Team, che in qualche modo dona anche una certa identità propria al titolo. Una velatissima metareferenzialità ludica che, seppur non in maniera così esibita come potrebbe fare un Mastro Kojima, ci ricorda sempre che stiamo giocando ad un videogame. Non a caso sono le situazioni in cui ci vengono proposti mini-game per variare un po’ il ritmo di gioco.
Parlando dei personaggi, anche in questo caso, tra nuove leve e vecchie conoscenze, il carattere di fondo, la indole, il background e l’aspetto e in generale la caratterizzazione, rimane sicuramente fedele, il ché non è certo un male. Il problema è come però la maggior parte dei comprimari vengono inseriti nella storia. Se alcuni, pochi, personaggi storici come ad esempio Toki, vengono riproposti degnamente nel tessuto narrativo, molti altri, come Rei, Souther, Jagger ecc. sono buttati nella mischia sbrigativamente, portando con loro qualche punto cardine delle rispettive storie originali, ma sostanzialmente venendo trattati in molti casi come delle comparse.
In Hokuto No Ken, all’interno dei loro archi narrativi c’erano anche molti dei momenti più memorabili dell’opera in generale. Va da sé che mancando i primi, mancano anche i secondi. La storia di Lost Paradise è quindi meno epica di quello che ci si aspetterebbe.
Seppur non manca qualche momento entusiasmante, soprattutto verso la fine, e sostanzialmente ci sentiamo di dire che il lavoro fatto sia discreto, la trama si dirada con un ritmo altalenante che non sempre coinvolge fino in fondo.
Ritmo altalenante che si travasa anche sul gameplay. Ci vorrà un bel po’ per ingranare. La struttura open infatti, propone moltissime quest secondarie in cui svolgere compiti di poco conto, come sconfiggere manipoli di criminali random o andare dal punto A e B della città, creando un circolo di backtraking che sopratutto fino ad un certo punto peserà un pochino. Anche la necessità di introdurre le molte caratteristiche della struttura di gioco in maniera “morbida” rallenta un po’ la progressione. Di contraltare questo significa che di fatto a livello contenutistico, Lost Paradise è veramente denso. Potremmo infatti come già accennato sviluppare vari aspetti della nostra crescita del personaggio, legati soprattutto al crafting di oggetti utili, all’accumulo di denaro e di esperienza per aumentare il moveset e le statistiche di Ken. I mini-giochi presenti sono numerosi.
C’è il Casinò in cui giocare d’azzardo, c’è la sala giochi in cui provare vari capolavori d’epoca targati Sega, l’attività di barman in cui creare cocktail attraverso tre divertenti seppur semplici minigiochi, c’è il “baseball”con cui lanciare in aria motociclisti con una grossa spranga, il rhythm game legato alla clinica e altro ancora. Anche la guida del proprio buggy (naturalmente personalizzabile) gioca un ruolo considerevole. Oltre a permetterci di esplorare il Westland fuori dalla città -ahimé solo sporadicamente utilizzato per farci raggiungere nuove mete legate alla storia- sarà necessario per raggiungere loot prezioso, ancora una volta indispensabile per la creazione di equipaggiamento, nuove parti del veicolo, o per creare i talismani, oggetti che se equipaggiati, sbloccano caratteristiche temporanee uniche in combattimento o legate proprio alla guida. È possibile anche fare delle vere e proprie gare. Peccato per il sistema di guida fin troppo “scivoloso” e non così appagante.
Il piatto forte della produzione però è ovviamente il sistema di combattimento, e fortunatamente in tal senso siamo pienamente soddisfatti. Superate le prime tediose ore in cui c’è poco da combattere e si hanno pochi colpi a disposizione, basterà addentrarsi più in profondità della campagna e sbloccare un po’ di tecniche attraverso l’articolato skill tree (diviso in 4 sezioni legate alle mosse, alle statistiche, alla modalità burst con cui Ken esplode in tutta la sua rabbia, e ai talismani) per scoprire un action game pieno di sfaccettature, talvolta addirittura sofisticato. Non basterebbe un articolo a parte per esaurire l’argomento. Vi basti sapere che difficilmente si poteva fare un lavoro migliore per riprodurre le caratteristiche dello stile di Kenshiro. Partendo da una base composta da schivate, colpi leggeri, pesanti, e il tasto dedicato alla pressione degli tsubo, si ramificano decine di opzioni di attacco e difesa diversa. Le combo, se imparate a dovere, non si limitano al button smashing ma prevedono sequenze di colpi pensate per essere allungate il più possibile, con colpi caricati, colpi aerei, juggle su nemici a mezz’aria e diversi altri tecnicismi talvolta nemmeno menzionati dal gioco. E ancora contromosse, parry, e stun di vario tipo. L’unione del tasto per gli tsubo con particolari sequenze di colpi preliminari, portano i nemici in diversi stati di stance. È possibile accecarli, immobilizzarli, inginocchiarli e quant’altro.
A questo punto in base al diverso tipo di stun è possibile portare a segno una letale e coreografica tecnica finale di Hokuto, che come da copione, li ridurrà in mille pezzi. Le stesse tecniche finali per massimizzare i loro danni e accumulo di esperienza prevedono di azzeccare dei QTE al loro interno. Questo costringe a non abbassare mai l’attenzione nemmeno durante l’animazione della stessa, rendendole di fatto meno noiose e ripetitive di quanto si potrebbe pensare nel tempo. Se tutto ciò funziona alla grande con i gruppi di nemici, negli scontri 1 VS 1 il discorso si fa ancora più valido, soprattutto se giocate alla massima difficoltà (consigliatissima), visto che gli scontri con i boss sono estremamente coinvolgenti e richiedono di sfruttare ancor più le singole finezze del combat system. Se proprio dovessimo trovare dei difetti in tal senso, potremmo dire che la telecamera e il sistema di lock-on non è dei migliori, costringendovi spesso ad aggiustare il tiro sulla visuale. Un neo che però si fa meno evidente con il passare del tempo e con l’abitudine.
Fortunatamente, proprio i combattimenti sono maggiormente valorizzati nell’end game, quando di fatto sbloccherete una serie di sfide impegnative e numerosissime nel Colosseo per divertirvi per ore e ore e sviscerare tutte le caratteristiche del combat system fino alla nausea.
Sul piano tecnico, Lost Paradise non stupisce ma si difende bene. Nonostante la povertà del motore grafico in termini di complessità poligonale, mi sento di dire che l’aspetto del gioco conserva comunque un certo fascino, grazie all’ottimo lavoro creativo sui colori e la modellazione dei personaggi. Gli ambienti invece risultano spogli, e il westland è veramente povero, ma vi assicuro che nell’economia del gioco, saranno carenze a cui darete poco peso. Inoltre, fortunatamente, esplosioni di viscere e fiumi di sangue, seppur proposti in maniera un po’ stilizzata, sono sempre presenti e restituiscono quella vena gore che in un gioco di Ken non poteva assolutamente mancare.
Verdetto
Fist of The North Star: Lost Paradise non è un gioco perfetto, ma è sicuramente il miglior gioco dedicato ad Hokuto no Ken mai creato. Se questo per voi significa poco, considerato il fatto che la stragrande maggioranza dei titoli a lui dedicati sono mediocri, sappiate che a prescindere da qualsiasi confronto, un fan (come d’altronde si qualifica chi vi scrive) non può che rimanere pienamente soddisfatto. Ritengo infatti che il mix tra una storia inedita e la riproposizione di personaggi ed eventi chiavi della storia originale, sia una scelta azzeccata per rendere comunque curiosa l’esperienza anche a chi conosce l’opera a memoria. Nonostante questo abbia portato a svilire parzialmente il ruolo di alcune iconiche figure della saga, penso sia stato in parte inevitabile nell’operazione di “condensazione” d tutto il primo arco narrativo del manga/anime, e in parte attribuibile ad una scrittura non eccelsa della sceneggiatura, ma non alla scelta di proporre un “universo alternativo” leggermente più colorato e leggero (ripeto, leggermente), che tutto sommato promuovo in pieno.
Sul lato ludico vero e proprio, Lost Paradise dà il meglio di sé tardi, ma ad un certo punto lo fa. Le fasi open sono gestite in maniera un po’ ripetitiva ma ci sono talmente tanti stimoli, tra mini-giochi ed espedienti per favorire la progressione di Kenshiro, che non accuserete troppa noia praticamente mai. Infine, il fulcro del gioco è sicuramente rappresentato dai combattimenti. Seppur -come per tutto il resto- la polpa arriva tardi (complice una prima parte del gioco avara di occasioni per menare le mani e un move-set inizialmente molto limitato), quando finalmente Lost Paradise si aprirà a voi con un sacco di combattimenti, boss fight, sfide impegnative e avrete a disposizione ogni tecnica possibile: beh credetemi signori, ci sarà da godere. Vi sentirete davvero nei panni dell’erede della scuola di Hokuto in tutto e per tutto. Certo, spiace per un contorno non così appetitoso quanto la portata principale, che può in qualche modo portarci a parlare di occasione mancata nel creare il gioco di Ken definitivo, ma rimane comunque parecchio di cui sorridere.
Non essendoci in questa generazione altri giochi simili o altrettanto validi dedicati a Kenshiro o all’animazione giapponese in generale, sono costretto banalmente ad indirizzarvi verso la serie Yakuza, ove tutta la formula di Lost Paradise ha preso spunto e attorno alla quale si è sviluppata. Non ve ne pentirete.