Dialogo con lo spirito.
Trasporre un romanzo è sempre un azzardo. Per restare in tema potremmo dire che è una lotteria difficile da vincere, specie quando sceglie, in maniera consapevole, di lasciare in secondo piano la storia originale.
Questo non sempre è un bene ovvio: la logica suggerisce di fare l’esatto contrario. Hai nel romanzo un soggetto che funziona, perché mai dovresti modificarlo? Domanda che spesso ci siamo posti di fronte a trasposizioni poco riuscite. Però una scappatoia esiste. L’abbiamo vista nella serie TV American Gods e nei film de Il Signore degli Anelli prima ancora: puoi cambiare un romanzo, magari anche stravolgerlo, a patto che lo spirito rimanga, che il messaggio di chi scrisse il testo arrivi allo spettatore come è arrivato al lettore.
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E, ringraziando la nostra buona stella, questo The Haunting of Hill House, trasposizione Netflix dell’omonima opera di Shirley Jackson ci riesce. Che questo sia avvenuto è un bene, sotto tanti punti di vista. In primo luogo perché l’autrice, tra le penne più raffinate del secolo XX, fonte di ispirazione per grandi autori come Stephen King, non ebbe una vita fortunata, e che il grande pubblico possa avere un assaggio della sua bravura sembra quasi un dovere. Ma, soprattutto, perché i precedenti tentativi di trasporre quanto accaduto a Hill House, bando al cautela, furono degli obbrobri.
Regista e sceneggiatore di quest’opera è Mike Flanagan, che in passato abbiamo visto in diversi già visto in diverse produzioni horror, riesce quindi nell’impresa di creare una storia originale, ma che mantiene quello che è lo spirito di Hill House.
Una casa
La storia di Hill House vede due diversi filoni temporali sovrapporsi. Nel passato vediamo la famiglia Crain, composta dai genitori Hugh e Olivia, insieme alla numerosa prole (Steven, Shirley, Theodora “Theo”, e i gemelli Luke ed Eleanor “Nell”) abitare nell’oscura Hill House con lo scopo di ripararla e rivenderla.
Impresa non facile: la casa è vecchia e disabitata da molti anni, e nella cittadina ai piedi della collina su cui sorge circolano voci strane sull’abitazione. Questo non sembra spaventare il capofamiglia Crain, seriamente intenzionato a concludere i lavori per riuscire ad avere un profitto tale da sistemare i figli e realizzare con la moglie quella casa dei sogni che da sempre progettano.
Le cose però assumono presto una dimensione inquietante. I bambini, specie quelli più piccoli, mostrano di avere uno strano rapporto con questa abitazione. Tra amici immaginari e spettri che solo la piccola Nell sembra poter vedere, il tutto prendere una piega che si concluderà in una nottata tragica, quando il primogenito Steven viene svegliato dal padre, il quale gli intima di tenere gli occhi chiusi. Il genitore lo prende in braccio e lo carica sull’auto, dove già si trovano i suoi fratelli, per poi partire lasciandosi alla spalle Hill House per sempre.
Hugh non farà mai più riferimento a quanto successo e i bambini sapranno solo che quella notte la loro madre si è tolta la vita, col padre che non ha mai voluto svelare loro la verità su quanto successo. Gli anni passano, con i cinque giovani Crain che, pur segnati da questa esperienza, prendono strade diverse.
Si possono allontanare i ragazzi da Hill House, ma non Hill house dai ragazzi, o almeno questo è quanto traspare dalla narrazione scelta dal regista. Steven è diventato scrittore, è un razionalista che scrive di spettri e case infestate senza realmente crederci. Ha fatto la sua fortuna raccontando quanto successo a Hill House, cosa che lo ha messo in rotta con i fratelli.
Tra tutti è soprattutto Shirley, profondamente segnata dalla morte della madre al punto da aprire un’agenzia di onoranze funebri, quelle che più è in conflitto col fratello maggiore per questa scelta. Accanto a lei è rimasta Theodora, la quale è diventata assistente sociale e ha dimostrato di possedere alcune capacità empatiche legate al tatto ereditate dalla madre.
La sorte è stata meno benevola invece con i gemelli: Luke è diventato tossicodipendente negli anni a causa degli orrori patiti in gioventù; sua sorella Nell invece ha dovuto far fronte per tutta la vita a dei disturbi del sonno, dovuti alla visione di una “donna dal collo storto” che la tormenta fin da bambina.
Poco tempo dopo essere rimasta vedova le visioni di Nell peggiorano. Una sera telefona a suo padre, unica dei figli a essere rimasta in contatto col genitore, rivelando che lo spettro che la perseguitava sin da bambina ha fatto ritorno. Quella sera stessa raggiunge Hill House e, apparentemente, si suicida.
Come vediamo carne al fuoco ce ne sarebbe tanta, anche senza per far entrare per forza l’elemento paranormale all’interno della vicenda. Hill House potrebbe essere un solido dramma familiare, con gli spettri che si aggirano sotto la superficie del nucleo di consanguinei che cercano di emergere e stracciare quel velo di unità, amore e affetto che lega delle persone.
In questo Flanagan è bravo a lasciare sottintesa l’ironia tragica della vicenda. La casa dovrebbe essere per definizione lo scrigno capace di racchiudere i sentimenti migliori di una famiglia, qualcosa capace di unirli e proteggerli, non di spezzarli. Assistiamo così alla sempre maggiore scissione tra i giovani Crain nei ventisei anni trascorsi dagli eventi di quella notte in cui la madre è morta, con lo spettro di Hill House che ancora aleggia nelle loro vite, in un modo o nell’altro.
Nell’etere e nella mente.
La linea di trama che abbiamo appena visto potrebbe essere facilmente alterata o spezzata dall’inserimento dell’elemento sovrannaturale. Ecco allora sorgere il vero tributo alla narrativa della Jasckson e al suo modo di raccontare storie di paura. Perché in Hill House, tanto nella serie Netflix del 2018, quanto nel romanzo originale, l’orrore c’è, è vivo, presente e costante. Una pericolosa spada di Damocle che pende sulle teste dei personaggi e degli spettatori, appesa a un crine sottile, pronto a cadere e colpire inesorabile. Ma resta lì, sospesa e, proprio per questo, ancor più spaventosa e inquietante, più di quanto possa esserlo la visione di un fantasma.
Shirley Jackson era un’autrice raffinata, capace di far avvertire l’inquietudine dei propri personaggi ai lettori, lasciarli sospesi in una dimensione onirica fatta di incubi pericolosi e tetri. Una visione che, presto o tardi, sembra pronta a fare la sua comparsa, ma riesce a essere eccezionale proprio per la sua impalpabilità, per il suo essere così eterea e così distante dalla dimensione reale. Il lettore, leggendo L’incubo di Hill House, avverte questa inquietudine. La fa entrare dentro di sé, miscelandola con la propria mente.
Flanagan sceglie di marcare un po’ di più il tasto del paranormale rispetto alla Jackson, qualche volta forse troppo, ma il risultato è quello di ottenere un’opera comunque capace di essere inquietante, inserendo quanto di horror esiste nella sua trama in maniera graduale, in un piacevole climax capace di concludersi con un finale azzeccato. Nulla è lasciato al caso in Hill House e i colpi di scena a cui assistiamo appaiono tanto logici quanto sorprendenti, scelte capaci di dare allo spettatore una sincera inquietudine, senza ricorrere all’uso di mezzi meno sottili come il jumpscare. In questo va fatto un plauso alla fotografia, capace anche di utilizzare diverse saturazioni di colore a seconda dello stato d’animo dei personaggi, evocando le loro sensazioni con una concretezza magistrale, capace di ampliare l’empatia dello spettatore verso quanto avviene in scena.
La paura, in Hill House, rievoca l’atmosfera lugubre del romanzo alla perfezione. Una sensazione opprimente, che aleggia per tutti e i dieci episodi del film, fino a trovare la sua conclusione in un finale che, ancora una volta, diventa un palese riferimento a una delle tante interpretazioni del romanzo originale.
Il tempo diventa un fattore chiave in Hill House. Non solo dal punto di vista narrativo, con i diversi momenti della vita della famiglia Crain che si mescolano e si sovrappongono, ma anche in maniera fisica, quasi come se imprimesse il proprio marchio sulle persone con una sensazione di dolore, sovrapponendo vari momenti della realtà, uno dopo l’altro, fino alla sua conclusione.
A corredare una trama solida e una messa in scena degna di questo nome abbiamo anche un cast all’altezza di quanto abbiamo narrato. Tra tutti merita una menzione di onore Carla Gugino, qui nel ruolo di Olivia Crain, madre dei cinque protagonisti, la quale ritrova Mike Flanagan dopo quanto visto in “Il gioco di Gerald”. L’attrice dimostra di possedere ancora una volta un’espressività invidiabile, una gestualità contenuta ed efficace che rende il linguaggio del suo corpo perfetto per un racconto dell’orrore ben realizzato come Hill House.
Verdetto
La terza volta è quella buona. Dopo due trasposizioni incapaci di riflettere quanto espresso dalla narrazione di Shirley Jackson, arriva finalmente sui nostri schermi un prodotto tratto da The Haunting of Hill House degno di questo titolo. In una dimensione quasi onirica, Mike Flanagan riesce nel doppio ruolo di sceneggiatore e regista a evocare una storia dalle tinte oscure, inquietanti e opprimenti, ma mai banali. Un gioco di ombre spaventose che si proiettano sulla mente degli spettatori, portandoli a provare una sincera empatia per quanto accade sullo schermo. Grazie a una trama ben strutturata, a degli interpreti convincenti e a un messa in scena azzeccata, ci troviamo di fronte a un prodotto pauroso, in cui gli spettri della mente e quelli di Hill House collaborano per dare allo spettatore un prodotto horror diverso dagli altri, un vero tributo alla sfortunata autrice del romanzo da cui è tratto questo lavoro.
Se vi è piaciuto The Haunting of Hill House…
Oltre al consiglio di recuperarvi il libro di Shirley Jackson, vi raccomandiamo di guardare anche “Il gioco di Gerald”, realizzato dallo stesso regista.