Peter Jackson: Cosa c’è oltre Il Signore degli Anelli
Basta pronunciare Peter Jackson, chiudere gli occhi e poi riaprirli. È lì che parte il viaggio. In mondi lontani, sorvolando le Montagne Nebbiose, le verdi colline della Contea, la tetra roccaforte di Isengard. L’immaginazione prende vita e non si ferma più, come una giostra variopinta, capace di far sognare e far vibrare animi. Il nuovo millennio ha segnato un punto di svolta nel mondo del fantasy in ambito cinematografico e il vero demiurgo di questa rivoluzione visiva e narrativa è proprio Jackson.
Ma questa non è la storia della Terra di Mezzo: sebbene il regista neozelandese sia ormai legato in maniera indissolubile alle avventure di Tolkiana memoria, la prima parte della sua carriera artistica aveva ben altre sfumature. Rosse come il sangue appena sgorgato. Rumorosa come una motosega che si fa strada in un corpo. Esagerate come una testa mozzata lanciata nello spazio. Quando gli Hobbit ancora erano imprigionati nelle pagine di romanzi polverosi, la mente di Jackson era l’habitat ideale in cui far vivere immonde creature, personaggi fuori di testa (a volte anche letteralmente), perennemente immersi in situazioni grottesche.
Lo Splatter con la maiuscola ha contraddistinto il suo esordio e Bad Taste rimane una delle gemme più brillanti del genere. Un debutto che coniugava con maestria fantascienza, horror, commedia e soprattutto tanto splatter. Un mix sapientemente bilanciato che palesava i gusti di Jackson al cinema: una passione sfrenata per i mostri oversize, King Kong su tutti, per gli zombie di Romero e per le opere brillanti firmate dai Monty Python. In particolare l’intera filmografia del gruppo artistico britannico aveva colpito il regista per l’ironia dissacrante e il potere destrutturante con cui dipingeva la realtà. Ed è proprio la vena comedy che viene assimilata e declinata nella sua versione più estrema, dando vita ad elementi di pura follia.
Appassionato di cinema e fotografia, il ventiduenne Peter rifuggiva schemi precostituiti e castrazioni artistiche. Abbandonò ben presto il college e con atteggiamento degno di un bassista di una band punk affrontò il cinema. Senza freni, con una gran voglia di spaccare a colpi di machete il mondo patinato e impostato del cinema dell’epoca. Armato di una 16mm, più potente e feroce di un’Uzi, quel ribelle neozelandese creò un piccolo capolavoro. Nato come un corto e diventato ben presto un lungometraggio, a causa delle continue geniali idee che nascevano a profusione nella testa di Jackson, Bad Taste è la storia di cinque agenti speciali, conosciuti come “The Boys”, che hanno una missione: indagare sulla scomparsa della popolazione della città di Kaihoro. Ben presto si viene a sapere che dietro tutte queste sparizioni ci sono bizzarri alieni antropofagi, ghiotti di carne umana. Il film, costato appena 230 mila dollari, è la prova di come, anche senza budget milionari, è possibile creare e generare intrattenimento allo stato puro.
La caratteristica che ha reso Bad Taste immortale e che ha lanciato immediatamente Jackson nel firmamento dei cineasti è il sapiente e creativo utilizzo di effetti speciali a dir poco amatoriali. Creati nella cucina della madre, gli effetti del film trasudano splatter in ogni inquadratura. Lo spettatore viene travolto da teste mozzate, spruzzi di sangue più travolgenti di uno tsunami, disgustoso vomito verde alieno, realizzato mescolando yogurt, muesli e colorante alimentare, e cervelli spappolati. E pensare che le maschere in lattice degli alieni venivano cotte nello stesso forno in cui l’amorevole signora Jackson cuoceva il tacchino per la famiglia!
Esempio lampante della creatività senza confini di Jackson è l’ingegno con cui ha forgiato le armi presenti nel film: il fucile mitragliatore è in realtà un pezzo di tubo di alluminio a cui viene applicata un’impugnatura posticcia, realizzata con il Fimo e legno. Per simulare il rinculo e gli spari, agli attori basta agitare le armi e il gioco di prestigio trasforma la finzione in realtà. I pochi mezzi a disposizione non frenano minimamente l’estro di Jackson, che canalizza lo splatter riformulandolo in chiave comica: tutto è talmente esagerato da non risultare disturbante, anzi le scene più estreme vengono accolte in modo spassoso dagli spettatori. L’abnegazione del neozelandese in quest’opera prima è palesata anche dal suo camaleontico ruolo all’interno della pellicola: Jackson è regista, sceneggiatore, produttore, creatore degli effetti speciali /make up ed infine attore, impersonando addirittura due ruoli.
Anelli elfici e draghi parlanti sono ancora lontani, quando nel 1992 va in scena il secondo capitolo dell’epopea splatter in stile neozelandese: Braindead aka Dead Alive. E stavolta si esagera, ancora di più. Nomen omen, in Italia viene distribuito proprio con il titolo “Splatters – Gli Schizzacervelli” in uno degli adattamenti più scabrosi mai giunti nella nostra penisola. Stavolta, rispetto all’esordio homemade, soprattutto grazie alla notorietà già maturata dal regista, aumenta considerevolmente il budget. La creatività di Jackson ringrazia e si leva più di uno sfizio. L’upgrade si denota già dal lato estetico: la fotografia è lungi dall’essere quella stile soap opera venezuelana, come nella maggior parte dei b-movie. Antropologicamente Braindead segna un rito di passaggio, l’ultimo folle atto prima di passare alla fase cinematografica adulta. Il grido finale lanciato nella propria cameretta, un ultimo sfogo liberatorio, prima di andare al college hollywoodiano. Zombie-neonati, preti ninja, scimmie ratto prendono vita in questa magnificazione del gore in tutto il suo orrore.
Come in ogni horror ben confezionato, dietro al sangue, agli sbudellamenti, alle atrocità, c’è una forte componente metaforica. Significati stratificati che fuoriescono indenni dalla carneficina e lanciano critiche feroci al capitalismo di matrice pop, in ascesa nei primi anni novanta. Il culto del corpo, dell’estetica fine a se stessa vengono triturati in un frullatore senza coperchio. Frammenti di cervelli yuppie sparsi ovunque, in un film in cui l’ideologia post-Reaganiana finisce in pasto al Jackson più scatenato di sempre. Il corpo qui diventa simbolo del de profundis al sistema: annichilito, torturato, putrefatto, corrotto. Come nell’American Psycho di Ellis la violenza va letta in chiave metaforica in un pamphlet bagnato dal sangue.
Ed è proprio il liquido rosso uno dei protagonisti assoluti della pellicola: per l’ultima scena del film furono utilizzati più di 300 litri di sangue finto! Il party che chiude il film è l’apoteosi dello splatter, gli ultimi fuochi d’artificio che illuminano il cielo della giovinezza cinematografica del regista più amato dai nerd di tutto il mondo. Il sipario si chiude, con la consapevolezza che non ci sarà mai più un bis. Poi arriverà un anello. E un hobbit. Ma quella è un’altra storia. Quello è un altro Peter Jackson.