La serie che ha fatto anche cose buone
Dal 7 dicembre su Netflix è disponibile alla visione una serie TV di matrice tedesca, la seconda dopo l’interessante Dark.
Si tratta di Dogs of Berlin, un titolo già di per sé accattivante, per un prodotto che richiama una grande fetta di pubblico ed ideato, scritto e diretto da Christian Alvart, che alcuni ricorderanno per il non proprio eccezionale Pandorum.
Di certo ad Alvart non manca l’ispirazione, poiché l’idea di base di Dogs Berlin è intrigante e richiama subito l’attenzione: l’improvviso ritrovamento del cadavere di un calciatore turco naturalizzato tedesco, Orkan Erdem, elemento di spicco della nazionale della Germania, proprio alla vigilia della sfida contro la Turchia, decisiva per l’approdo al Mondiale.
Dietro un omicidio già apparentemente complesso ed atipico, c’è un mondo di probabili fattori e cause scatenanti, e la polizia si troverà ad indagare nel macro e nel microcosmo della criminalità berlinese.
Dogs of Berlin dunque, prima di essere un avvincente crime è un viaggio all’interno del sottobosco banditesco della capitale tedesca, in cui convivono rivalità accese e sempre sul filo dell’alta tensione, come il clan dei neo-nazi, a cui proprio uno dei poliziotti al comando del caso, Kurt Grimmer (Felix Kramer) è legato, avendo fatto parte di questo gruppo in gioventù per poi esserne uscito, sebbene non del tutto, poiché il fratello, la cognata ed anche la madre hanno ancora, qui, un ruolo importante. In piena ostilità con i neo-nazi c’è poi il clan dei turchi, ovvero i temibili Tarik Amir, chiamati dispregiativamente Kanaken dai tedeschi. Infine abbiamo i Kovac, un gruppo di criminali serbi legati più che altro al mondo delle scommesse clandestine.
Chi può aver commesso quindi questo terribile omicidio? Un quesito a cui l’operazione cartellino rosso, al comando della quale abbiamo il già citato Grimmer e il turco-tedesco Erol Birkam (Fahri Yardim), fanno fatica a dare una risposta, ritrovandosi a vagare nel buio nei vicoli ciechi architettati da una sceneggiatura senza dubbio convincente e fascinosamente intricata.
Di sicuro va dato merito ad Alvart di aver messo in piedi un plot ben congegnato, dove ogni cosa ed ogni elemento è al posto giusto, rendendo Dogs of Berlin un’opera corale con un’oculata gestione dei tantissimi personaggi che si ritagliano di volta in volta, durante i 10 episodi, un ruolo sempre fondamentale negli intrecci narrativi, facendoci di fatto constatare l’assenza di un vero e proprio protagonista. Gli stessi Erol e Kurt, nonostante l’ovvia sovraesposizione sullo schermo devono sempre condividerlo con l’Akim di turno, con la folle Sabine e via discorrendo.
Sotto questo punto di vista è un’opera gargantuesca come poche ne abbiamo viste, ed il regista si dimostra davvero abile a coordinare un cast così numeroso ma soprattutto a far muovere tutti fluidamente in un percorso ricco di ostacoli.
Tuttavia è proprio quando la matassa inizia a sbrogliarsi che perde d’intensità l’opera di Alvart. La creazione di quel sottobosco criminale appare inizialmente perfetta, e ci vengono presentati dei personaggi fascinosi e carismatici, in grado di farci appassionare tanto alla vicenda principale quanto a quelle collaterali, eppure questo mondo malavitoso di gomorriana memoria, dopo aver resistito per circa 8 episodi inizia a cedere alle tentazioni, e la narrazione alla lunga diventa eccessivamente romanzata.
Si arriva a focosi scontri da ultrà che sembrano, appunto, più quelli di bande di hooligan fuori dagli stadi che quelli della criminalità organizzata a cui è legato – quantomeno – il nostro immaginario, e quindi distaccati, pieni di “burocrazia”, pronti in caso a risolvere le questioni con le pallottole e non certo con scazzottate per la gloria e per l’onore.
Il tutto si conclude con un finale troppo fiabesco, per certi versi grottesco, che se non altro ci lascia tante piste aperte per una seconda stagione che, se ci sarà, avrà il dovere di aggiustare il tiro.
Verdetto
Ci aspettavamo in fondo una serie bella, sporca e cattiva, e Dogs of Berlin per lunghi tratti ci fa credere di esserlo, a partire da un comparto estetico graffiante, caratterizzato da una mirabile fotografia, sempre cupa e sporca, che ben si sposa con l’ambientazione crime, sino a quel variegato e complesso sottobosco criminale creato e ben gestito da Alvart.
L’ideatore dello show fa sostanzialmente tutto bene, salvo poi perdersi in un finale quasi macchiettistico e troppo romanzato.
Nel panorama delle serie Netflix resta comunque uno dei prodotti attualmente più interessanti e che vale la pena vedere.
Se avete apprezzato Dogs of Berlin…
Allora non vi resta che guardare altre serie di genere, partendo dalle italiane Gomorra o Suburra – La serie, per arrivare ad altre come Ozark. Potreste concedere una chance anche a Collateral, miniserie Netflix diversamente crime.