Come è finito il soft reboot dell’undicesima stagione di Doctor Who
“Don’t you understand? The regeneration is failing!”
Era il 1982 quando il Dottore con la faccia di Peter Davison pronunciava questa frase nella sua prima apparizione in Castrovalva. Una “rigenerazione fallita” perché il Dottore non riusciva a riprendere il controllo di sé, oscillando tra le personalità delle sue precedenti incarnazioni e incapace di rimanere lucido e attivo. C’è voluta la Zero Room del TARDIS per rimetterlo in sesto, e qualcuno sostiene che in realtà non si sia mai ripreso del tutto.
La citazione del Quinto Dottore capita bene, dato che in molti hanno associato il personaggio reso da Jodie Whittaker a quello di Davison: da una parte empatico, positivo, quasi dolce nel suo modo di prendersi cura dei compagni; dall’altro confuso, indeciso, passivo. Con l’undicesima stagione della nuova serie da poco conclusa in patria e appena arrivata in Italia, ogni domenica pomeriggio su Rai 4, è il momento di trarre un bilancio per capire se l’operazione messa in atto dalla BBC ha avuto successo: è possibile far ripartire (ancora) Doctor Who per portarlo a un nuovo pubblico?
Fin da quando è stata rilanciata nel 2005, la serie ha sempre avuto un andamento altalenante, con cali e picchi di ascolti e di valutazioni da parte di pubblico e critica. Il declino ha iniziato però a essere troppo pesante nelle ultime stagioni, condotte da Steven Moffat, con il Dottore di Peter Capaldi. La scommessa di riportare sullo schermo un protagonista più anziano e ruvido, molto lontano dai fascinosi giovanotti precedenti, alla lunga si è rivelata perdente. Si è deciso quindi per un brusco cambio di direzione: nuovo showrunner, nuovo staff, nuovo Dottore, nuovi companion, nuovo TARDIS e anche nuovo cacciavite sonico. Di fatto un soft reboot, un punto zero per la serie serie che, certo, è ancora Doctor Who, ma cambia sotto tutti i punti di vista. L’occasione perfetta per permettere a un nuovo pubblico di salire a bordo e ridare linfa a una serie che iniziava a mostrare segni di affaticamento.
La stagione che cadde sulla terra
L’impatto con la nuova stagione è forte almeno quanto lo schianto del Dottore che cade dal cielo nel primo episodio The Woman Who Fell to Earth. Prima ancora di conoscere il Tredicesimo Dottore e gli altri, il nuovo showrunner Chris Chibnall (approdato da altre serie di successo BBC come Broadchurch) mette in mostra un radicale cambio nel comparto tecnico: fotografia, regia, e scenografie sembrano concepite con criteri ben diversi a quelli a cui lo spettatore medio di Doctor Who è abituato. Anche la classica soundtrack orchestrale di Murray Gold lascia spazio a quella più elettronica e ambient di Segun Akinola. Finché sullo schermo non compaiono alieni e cabine telefoniche blu, si può ragionevolmente pensare di stare vedendo una serie di tutt’altro genere e con un budget ben più sostanzioso.
La prima puntata proietta da subito nell’azione. La squadra è già assemblata, i companion sono tutti lì: Ryan (Tosin Cole), giovane affetto da disprassia, Graham (Bradley Walsh) nonno adottivo di Ryan che fatica a farsi accettare da lui, e Yaz (Mandip Gill), cadetta di polizia di origini pachistane. Anche il nuovo Dottore non si perde più di tanto nei suoi soliti vaneggiamenti post-rigenerazione: giusto il tempo di realizzare di essere diventata donna, e via a costruirsi un nuovo cacciavite. Questa impostazione così “sul pezzo” sarà mantenuta per tutto il corso della stagione: poco spazio per introduzioni o chiacchierate sul ponte del TARDIS, al punto che non esiste più il tipico cold open prima della sigla. Le puntate iniziano quasi sempre con il gruppo già sul posto, pronti per l’avventura.
Il Dottore stesso non parla troppo di sé. All’inizio i suoi nuovi amici la vedono subito occuparsi della minaccia in corso, quindi è comprensibile che per salvarsi da un cacciatore alieno la lascino fare. Ma nelle puntate successive, quando il loro legame si consolida e il Team TARDIS (come viene definito in- e out-universe) balza tra pianeti ed epoche, non ci sono momenti in cui il Dottore si presenta o racconta la propria storia. Per tutta la stagione non vengono mai nominati i Time Lord e nemmeno Gallifrey, e alla fine viene da chiedersi se i tre compagni sappiano davvero con chi stanno viaggiando.
Fairplay, carità e speranza
I tratti caratteriali del Tredicesimo Dottore emergono abbastanza presto: nel confronto con il primo e unico villain vero e proprio di tutta la stagione, si presenta come The Doctor, spreading fairplay across the universe. È una definizione che si può applicare in sostanza a tutti i Dottori precedenti, ma che in questa versione sembra assumere una centralità molto maggiore.
Superata la crisi di mezza età del Dodicesimo, e forse seguendo alla lettera le ultime raccomandazioni del suo predecessore (Laugh hard, run fast, be kind), questo Dottore è costantemente entusiasta, si emoziona per prodigi della tecnica come un motore ad antimateria ma anche per gioie ben più mondane come la consegna di un pacco. Quando le viene chiesto in cosa è dottore, risponde con una sfilza di discipline per concludere con Also hope. Mostly Hope.
Ed è infatti questa nota di positività e buone intenzioni che si porta dietro in ogni occasione. Il beneficio del dubbio concesso a ogni possibile nemico, la possibilità di redimersi offerta sempre prima della soluzione finale. Forse anche per questo si fatica a trovare un “cattivo” propriamente detto: gli avversari sono sempre qualcosa di diverso dalla minaccia immediata, quelli che appaiono come nemici si rivelano quasi sempre come altre vittime o quanto meno parte a loro volta di un meccanismo ingiusto. La flessibilità morale è sempre stata una caratteristica di Doctor Who, quindi siamo abituati ai mostri-che-non-sono-i-veri-mostri, ma quando nel corso di una decina di puntate la rivelazione finale è sempre che il cattivo non è davvero cattivo, ci si inizia a chiedere cosa farà il Dottore quando incontrerà un vero vero cattivo.
Il buon cuore del Tredicesimo si mostra anche nel suo rifiuto categorico per qualunque tipo di violenza e di arma, caratteristica che va e viene tra una rigenerazione e l’altra del Dottore. Peccato che a volte porti a dei paradossi: sparare a dei robot cecchini con un fucile è sbagliato, ma li si può disattivare con un impulso elettromagnetico; ammazzare un ragno gigante che sta già soffocando è impietoso, ma chiuderne decine in una stanza senza cibo è accettabile.
Doctor Who! Dove sei tu?
Durante i lunghi mesi di hype che hanno preceduto l’avvio della nuova stagione, Chris Chibnall aveva anticipato che nel suo Doctor Who non ci sarebbe stato nessun avversario storico (Dalek, Cybermen, Master, ecc) e nessun arco narrativo spalmato sui vari episodi da concludere poi nel finale. Queste promesse sono state in effetti mantenute (il primo Dalek compare nell’episodio festivo, tecnicamente al di fuori della stagione regolare), di conseguenza la stagione 11 si presenta piuttosto disgiunta rispetto alle precedenti. Doctor Who alterna da sempre episodi isolati da monster of the week ad altri più radicati nel lore della serie, e questo contribuisce a dare spessore e continuità al personaggio, ma in questa stagione a parte qualche veloce battuta infilata qua e là (quella volta che ho conosciuto Agatha Christie…), i riferimenti al passato del Dottore non esistono.
L’idea di fondo probabilmente è che liberarsi del fardello accumulato in oltre cinquant’anni possa rendere la fruizione più accessibile a quanti non hanno mai visto un episodio prima. Il ragionamento è in parte corretto, perché per un nuovo spettatore vedersi comparire davanti un Sontaran non significa nulla di per sé, e le reazioni del Dottore a personaggi e situazioni ricorrenti gli risulterebbero incomprensibili senza un’adeguata preparazione. Ma dall’altro lato, trovarsi di fronte a un Dottore che non afferma la propria identità e non mostra particolare conoscenza dell’universo che lo circonda, può portare a un disorientamento molto simile. Uno spettatore che inizi a seguire la serie con la stagione 11 si troverebbe a non capire che cos’è un b, da dove viene il Dottore, quali “poteri” ha. Di contro, nell’ormai remota stagione 1 con Christopher Eccleston, queste informazioni di base venivano fornite poco alla volta affinché il pubblico digiuno della serie classica non si trovasse del tutto privo di riferimenti.
Non aiuta in questo l’assenza di archi narrativi. Con l’eccezione del primo e ultimo, tutti gli episodi sono tra loro indipendenti, e non c’è nessun elemento che porti a pensare a una storia in evoluzione. Non solo manca un plot condiviso su più puntate, ma lo stesso sviluppo dei personaggi è praticamente assente. Graham e Ryan giocano sul loro rapporto per concludere la vicenda nell’ultima puntata; Yaz… c’è poco da dire, Yaz di fatto serve a fare controparte per le spiegazioni del Dottore, non ha una personalità né un obiettivo; il Dottore stesso, passato lo smarrimento rigenerativo, nel corso delle puntate non cambia, non impara, non torna indietro. C’è una prova empirica molto semplice che dimostra l’assenza di qualsiasi sviluppo: si possono scambiare di posizione tra loro tutti gli episodi dal 2 al 9 senza per questo notare nessuna incongruenza.
Il ritorno a una struttura più episodica è certamente voluto, e per molti versi ricalca lo spirito della serie classica, così come l’abbondanza di episodi ad ambientazione storica al limite del didattico, o la presenza di più companion insieme. Per questo molti hanno parlato di un ritorno alle origini di Doctor Who, ma sembra controintuitivo che per rinnovare la serie si debba guardare al suo passato. L’impressione può essere anche quella di trovarsi di fronte a una serie con una concezione diversa, più simile a un procedural: si arriva in un posto nuovo, si scopre il mostro che in realtà non è quello che si pensava, si parte per la prossima avventura e quella precedente è dimenticata. In pratica, il TARDIS come la Mistery Machine di Scooby Doo.
C’è un Dottore in sala?
Tutto considerato, la stagione 11 è un’esperienza diversa rispetto alle precedenti, e si può forse arrivare a dire che per concezione, struttura e svolgimento è più lontana dalle dieci stagioni moderne di quanto queste lo siano rispetto alla serie classica. Nel fandom si sono scatenate reazioni del tipo questo non è più Doctor Who o questo non è il Dottore, ma anche senza volersi schierare su una delle posizioni radicalizzate che vedono Social Justice Warriors e Incels accusarsi a vicenda di non capire/non meritare Doctor Who, è indubbio che l’impronta data da Chibnall è qualcosa di nuovo rispetto a quanto visto finora.
Da una parte abbiamo una serie più accessibile, indirizzata tanto allo spettatore occasionale quanto a quello affezionato, e un evidente tentativo di ingaggiare meglio il pubblico, con meme pubblicati sui canali social e merchandising rivolto a fasce differenti (compra gli orecchini del Dottore!).
Dall’altra, in questo scambio si è perso qualcosa. Una sorta di ingenuità di fondo, l’idea che con un Time Lord e un TARDIS si potesse arrivare un po’ ovunque, azzardare fino a battere qualche brutta musata, ma sempre con la consolazione di averci quanto meno provato. Chibnall ha confezionato qualcosa di più blando, più digeribile, adatto a tutti ma memorabile per nessuno. Una serie gradevole tra decine di altre serie gradevoli: assolutamente da vedere… se non c’è in onda nessuna delle altre.