Ecco perché se state per approcciarvi a Resident Evil 2 vale una sola regola: “no modalità Estrema, no Party”
Non sono qui per sperperare fiumi di parole su un titolo di cui avete già letto vita morte e miracoli da giorni sul web. L’ultima opera di Capcom è qualcosa di sublime sotto tutti i punti vista, che continua l’onda lunga del brillante ritorno della saga cominciato con il settimo, interlocutorio ma riuscitissimo, capitolo. Però si perde in un bicchiere d’acqua e lascia cadere i giocatori nella facile tentazione di vedere tanta magnificenza solo dal buco di una serratura.
Resident Evil 2 è speciale, veramente, ma attenzione, solo se giocato a modalità estrema. Un gioco del genere che crea la paura non con il jump scare o soluzioni meramente estetiche, narrative ma bensì nel contesto specificatamente ludico, ha l’obbligo di tenerti stretto con le munizioni, di farti temere la morte anche con uno o due attacchi soli, e soprattutto, di non permetterti di salvare in ogni cavolo di momento, per dare quella tensione del “non si torna più indietro” ogni volta che ci si avventura in un corridoio.
Ho fatto la mia prima run ad estrema, ma ho visto sezioni di gioco totalmente sputtanate a difficoltà standard dalla possibilità di salvare ogni 3 passi, incapaci di lasciare qualsiasi forte sensazione al loro superamento. Quelle stesse sezioni che giocando a “difficoltà massima” (capirete le virgolette) mi hanno fatto tirare un sospiro di sollievo una volta terminate che non finiva più e mi davano quel feeling da vero sopravvissuto. Nello specifico una certa porzione del gioco in cui si viene braccati da “voi sapete chi”. Vedere, anche in mille video di streamer online, gente che ogni quattro metri si rifugiava nel caldo abbraccio di un salvataggio totalmente gratuito alla macchina da scrivere, per stare sempre 2 passi avanti al pachidermico molestatore, mi ha fatto molta tristezza. Badate bene, parlo di solidarietà tra un giocatore appassionato ed altri suoi “simili”. Perché secondo me questi giocatori perdevano tutto il pathos di certi momenti, e mi spiaceva con sincerità per loro, visto il potenziale coinvolgimento che se ne potrebbe trarre.
Cosi il gioco diventa un trial and error senza arte né parte, ammesso che ci sia tanto da “sbagliare poi”. Immaginate la stessa situazione in cui avete però appena salvato, e non potete concedervi il lusso si sprecare un prezioso quanto raro nastro di inchiostro per fare un nuovo save nell’immediato. Aprite la mappa e stabilite dei punti chiave da raggiungere, studiate il percorso per incontrare meno ostacoli possibili, anche perché la vostra salute è precaria, e quella manciata di colpi in tasca non potete proprio permettervi di buttarli. Vi preparate al peggio, vi aggrappate alla speranza che tutto vada bene, perché non potete davvero mai sapere come finirà. Partite, e all’improvviso lui, “Mr. X”. Che fare? Che non fare? Irrimediabilmente rovinati i piani, entra in gioco lo spirito di improvvisazione, la volontà di seminare il grottesco segugio con pazienza. E ad ogni angolo svoltato, ecco il terrore dei suoi passi implacabili che vi fanno capire quanto non esista veramente luogo sicuro, se non alcune stanze con la macchina da scrivere che non vale assolutamente la pena raggiungere. Perché no, NON POTETE E NON VOLETE, giocarvi un prezioso nastro per pura codardia.
E allora ecco che i vostri progressi da portare a casa oggi diventano 10 minuti intensissimi di fughe, nascondini, pianificazioni, confronti con più minacce sul campo da superare un po’ “inventandosela”, tra salvataggi in extremis con il coltello e passi felpati per non allertare i Licker. E alla fine, solo alla fine dei giri prestabiliti, ad un passo dalla meritata salvezza, la morte ingrata e la necessità di rivedere i vostri piani da zero, oppure la salvezza, il cuore in gola, e la soddisfazione di aver fatto “i numeri” con 2 colpi di pistola e mezza erbetta verde in saccoccia.
Giocarsela “facile” significa svilire, se non proprio far scomparire del tutto, due concetti ESSENZIALI dell’esperienza: tensione e sopravvivenza. Due parametri che in Resident Evil 2 non sono negoziabili, che lo identificano, salvo travisare completamente lo spirito del gioco, che rimarrà sicuramente una esperienza d’alto rango, ma semplicemente diversa e permettetemi, inevitabilmente inferiore. RE2 va giocato in estrema subito, al primo avvio, perché tale modalità deve accompagnarsi al fascino della scoperta e alla paura dell’ignoto.
Perché non bisogna fraintendere, non è necessaria una conoscenza pregressa dei fatti del titolo per smarcarsela in questo modo. La parola “Estrema” genera fraintendimenti che è bene disinnescare. Non siamo di fronte ad una difficoltà “per veri esperti” che esasperi la sfida all’inverosimile per i masochisti. Non siamo di fronte alla modalità Akumu di The Evil Whitin. Mai scelta di parole fu più sbagliata. Non si tratta di stressare la struttura del gioco al massimo, ma di VALORIZZARLA. Dalle dinamiche di negoziazione con i nemici alla gestione dell’inventario al level design, tutto è studiato a puntino per funzionare nelle stesse condizioni con cui funzionava il gioco 20 anni fa. Il gioco è volutamente circoscritto, gli ambienti sono volutamente concentrati e intensi, si tratta di cercare il bandolo di una matassa dal volume veramente contenuto per rimanere in ogni caso equilibrato. Se le risorse date al giocatore superano la soglia ottimale per la sfida, si avrà un gioco totalmente snaturato, che “cani e porci” finiranno in 4 o 5 ore al primo tentativo, quando appunto, prende di peso un level design arcaico ma ancora perfettamente funzionale nel generare la giusta longevità, a patto di gestire la situazione con un kit di strumenti adatti all’impresa, quindi limitati.
Tra l’altro, giocarlo senza i nastri di inchiostro per salvare, e senza un più esiguo numero di munizioni, cure, e resistenza agli attacchi, significa fare un lavoro di recupero a metà rispetto all’esperienza originale. Lo scheletro di questo remake al di là della destrutturazione estetica vera e propria, è ESATTAMENTE quello del titolo di Kamiya del 1998. La riproposizione fedelissima che però va a infrangersi proprio nella scelta della difficoltà, visto che tutte le condizioni che giustamente e brillantemente accompagnavano la modalità standard dell’epoca, in quanto pensate per rendere giustizia agli obiettivi del gioco, sono oggi riproposti nella modalità estrema.
Ancora una volta ribadisco che non è questione di dimostrarsi capaci di imprese titaniche pad alla mano, vi assicuro che l’esperienza è fattibile da chiunque, si tratta solo di impegnarsi a seguire delle regole necessarie, di avere un’attitudine che mai come in atri casi, vale l’esperienza stessa. Altrimenti cosa abbiamo? Un third person shooter a tema horror troppo corto. Un Resident Evil 4 o 5 in scala ridotta. Ovviamente sto esasperando i paragoni, i valori produttivi di questo titolo sono ben altri, ma cercate di cogliere il punto.
Resident Evil 2 è un puzzle adventure, ove gli “enigmi” principali non sono come e perché quel medaglione va infilato in tal cavità. I veri quesiti da risolvere sono: come arrivo da A a B senza spezzare l’azione e a chiappe strette (altrimenti perdonatemi, ma è come giocare a Tetris e poter tornare indietro di una mossa ad ogni errore)? Come decido cosa portarmi dietro con un inventario più stretto? Come sopravvivo a tutto quello che troverò nel mezzo sapendo che i colpi sono pochi e potrebbero comunque sempre servirmi per quel boss “spugna di proiettili” che potenzialmente mi aspetta dietro ogni angolo? Sono sicuro che sopravviverò, o rischio di trovarmi in un vicolo cieco se non sto attento?
Si belle le atmosfere… Bello il gameplay… Bella la storia… Ma se queste domande non vi fanno paura mentre giocate, vi manca la paura in Resident Evil 2. E se vi manca la paura, vi manca Resident Evil 2.