Kingdom Hearts III è ultimo capitolo di un saga complicata: l’attesa sarà stata ripagata?
Dopo sei lunghissimi anni dall’ultimo capitolo, Tetsuya Nomura porta nelle nostre case l’attesissimo finale della saga di Xehanort iniziata nel lontano 2002 su PlayStation 2. Kingdom Hearts 3 si è rivelato una piacevole sorpresa, ricco di novità, divertente e complesso, ma anche monotono, noioso e semplice. Ebbene sì, perché Kingdom Hearts è una di quelle saghe che spacca letteralmente in due il pubblico, e non si tratta del classico “chi lo odia e chi lo ama”, ma più di una divisione tra chi lo capisce e chi no. Dicendo questo non vogliamo dare dello stupido a nessuno, ma senza dubbio la prima cosa che tiene lontano un videogiocatore da Kingdom Hearts è l’assurda complessità della trama.
Quella di Kingdom Hearts è sicuramente la più intricata, incasinata, incompleta e incomprensibile trama che si sia mai vista nel mondo dei videogiochi, se non oltre, e il fatto che il gioco negli anni sia stato diviso su diverse piattaforme di diversi brand e ha utilizzato titoli ingannevoli che fecero apparire alcuni giochi come se fossero degli spin-off, ha contribuito a peggiorare la confusione generale, allontanando molti. Parlare così di Kingdom Hearts lo fa quasi sembrare un gioco di nicchia invece che un qualcosa di molto popolare, e la Disney c’entra solo in parte con questo successo. Insomma, tutti coloro che hanno resistito in questi anni, o gli appassionati dell’ultima ora grazie alle remastered, hanno sicuramente già messo le mani sul terzo capitolo, e si spera anche che l’abbiano portato a conclusione con tanto di finale segreto, altrimenti farebbero meglio a non proseguire e a godersi il gioco, per poi riprendere da qui la lettura.
Kingdom Hearts 3 ha avuto il difficile ruolo di chiudere almeno una parte della lunga storia di Sora e compagni, compito che poteva essere un disastro totale e che invece si è rivelato riuscito, seppur con qualche ostacolo. La complessa trama riguardante la saga di Xehanort è stata effettivamente portata a termine, e molte altre trame sono state aperte in vista dei capitoli successivi, quel che vien da chiedersi però è se abbia avuto senso la costruzione di questo finale all’interno di questo titolo. Se le prime ore di gioco erano pur passabili, dovendo reintrodurre molti concetti e personaggi, quasi la totalità di questo non è stato altro che un lungo viaggio insignificante.
Essenzialmente potremmo dividere l’intero gioco in due parti, cinque ore di Kingdom Hearts 3 e venticinque di Disneyworld Simulator. Il fanservice Disney è sicuramente uno dei marchi di fabbrica di Kingdom Hearts, e qui è anche valorizzato all’ennesima potenza rispetto agli altri titoli, basti pensare ai robot giocattoli in Toy Story o alla scena di Let It Go in Frozen, sicuramente tutto molto piacevole e positivo, il problema però è che durante tutte queste lunghissime ore di gioco, la trama non si muove. Resta lì, sospesa nel tempo, costringendo il giocatore che vuole sapere come questa saga prosegua a correre attraverso i vari mondi per poter raggiungere quei piccolissimi pezzettini di filmato che vengono mostrati alla fine dei livelli. Poi si arriva finalmente all’ultimo mondo, e qui si viene sommersi da ore e ore di video e spiegazioni, alternate da battaglie di una durata insignificante l’una dietro l’altra.
Alla fin fine però quello che importa davvero è che la saga di Xehanort si sia chiusa, anche se poteva essere sicuramente gestita meglio, e non mancano colpi di scena e questioni in sospeso che troveranno spiegazioni nei prossimi titoli che si spera arrivino al più presto. Ovviamente non mancano nemmeno i buchi di trama, ma lì dove in un altro gioco questi sarebbero visti come un male, in Kingdom Hearts fanno parte del suo successo, un vero e proprio punto di riferimento per la serie. Dopo che la trama si trasformò da una classica fiaba in un racconto di memorie perdute, mondi digitali e disquisizioni filosofiche, fu inevitabile creare qualche buco. Quello a cui Nomura però ci ha abituati, da Chain of Memories e ancor di più da 358/2 Days, è che ogni buco ha la sua spiegazione. Spiegazione che complica ancora di più la trama, e che qualche volta ricorre a piccole operazioni di retcon certo, ma comunque una spiegazione esiste, e molto spesso la si può trovare all’interno del gioco. È così che internet si riempie di migliaia di appassionati pronti a discutere e teorizzare su ogni minimo dettaglio, pronti a speculare su questa o quell’altra teoria per riempire quanto più possibile i buchi, avendo la certezza che nei capitoli successivi questi saranno ripresi e aggiornati. Assurdo dirlo, ma è qui la vera forza del brand, Kingdom Hearts ha trasformato un evidente errore nella sceneggiatura in un vincente punto di forza.
Another Side, Another Story
Se Kingdom Hearts ha una forte componente narrativa, bisogna comunque ricordarsi che stiamo parlando di un gioco, ed è proprio su questo lato che il terzo capitolo tradisce l’evoluzione che c’è stata nei suoi predecessori. Il gameplay, e nello specifico il combat system della saga è sempre rimasto a grandi linee lo stesso, ma ha saputo ogni volta rinnovarsi aggiungendo nuove meccaniche, e siamo così passati dall’avere un semplice attacco e qualche magia (Kingdom Hearts 1) a poter evocare alleati e trasformare il nostro stile di combattimento cambiando così approccio alla battaglia (Birth By Sleep). Kingdom Hearts 3 ripropone tutto il percorso fatto finora, aggiungendo ancor più varietà, ma cade nell’errore più banale e stupido, ovvero quello di settare il tutto ad una difficoltà estremamente bassa. Nemmeno impostare la massima difficoltà aiuta, e questo rende tutte le nuove aggiunte al combat system dei meri espedienti per allungare la durata di gioco. Ed è proprio così, perché per quanto possa essere bello e divertente trasformare il Keyblade o evocare le attrazioni di Disneyland, il loro scopo in combattimento è solo quello di allungare la sua durata restando fermi a guardare le animazioni di trasformazione/evocazione, perché a tutti gli effetti l’aumento di potenza è inutile in un gioco in cui i nemici muoiono con qualche colpo. Così dopo i primi tre quattro mondi, si inizia a non far più uso dei comandi, e a limitarsi a premere ripetutamente il tasto di attacco, ottenendo comunque il medesimo risultato nel minor tempo possibile.
La delusione maggiore però colpisce dopo il finale. Kingdom Hearts ha sempre avuto un endgame abbastanza ricco, con boss segreti da trovare e sconfiggere e sfide da affrontare. Qui invece ci ritroviamo con qualche facilissimo scontro per ottenere i pezzi del diario segreto di turno, un unico boss non molto segreto che si batte a occhi chiusi, e un’infinità di minigiochi, tra l’altro tutti necessari per ottenere l’arma più potente del gioco, così tanti da risultare stucchevoli ed estenuanti (non so se avete capito bene, per ottenere la potentissima arma finale, la maestosa Ultima Weapon, dovete dimostrare di esserne degni saltando sulle teste di un budino). C’è davvero da chiedersi che fine abbia fatto la componente ludica in questo titolo, dove sono le sfide, dov’è Sephirot pronto a farci tirare più bestemmie di quante ne faccia uscire Dark Souls tutto? Perché ci ritroviamo nel post-game con dei minigiochi spesso a dir poco imbarazzanti?
In questi giorni spesso si è sentito spesso discutere in giro le problematiche legate al marchio Disney, che limita e non poco la possibilità di creare qualcosa di più profondo e complesso all’interno di Kingdom Hearts. Torniamo per un attimo alle origini. Kingdom Hearts, il primo gioco in collaborazione tra la SquareSoft e la Disney, pronti a creare un’icona del mondo videoludico. La Square vuole un Sora che impugna un’arma che devasta nemici a destra e sinistra, ma per la Disney questo è troppo violento. La Square voleva dare a Topolino un ruolo importante fin dall’inizio, ma per la Disney non fare di Topolino il protagonista significa che Topolino non lo usi per più di mezza scena (poi sono arrivati i soldi e sappiamo tutti come è finita). Probabilmente in realtà è proprio grazie a questi paletti che Kingdom Hearts ha raggiunto il successo sperato, oggi però questi paletti diventano un limite davvero eccessivo.
Se alle origini quella di Sora era un’avventura semplice, pensata per dei ragazzini, oggi quei ragazzini sono cresciuti, sono adulti, e questa trama è a loro che si rivolge, perché se fosse altrimenti bisognerebbe rivedere un bel po’ la sceneggiatura, difficilmente molti ragazzini oggi si recupererebbero tutti i titoli per poter giocare bene il terzo capitolo, e molto probabilmente così sarà per quelli a venire. Se vuole mantenere il suo pubblico, Kingdom Hearts ha bisogno di crescere, come dopotutto sta facendo anche Sora, e iniziare a trattare concetti più seri e adulti, come la morte per esempio. In Kingdom Hearts non muore mai nessuno, e nessuno è mai veramente cattivo, tutti alla fine diventano buoni amici, ed è così che dopo che Xehanort ha condannato all’oscurità mezzo universo, tutti lo salutano sorridendo e piangendo per lui. Va bene, Xehanort tecnicamente dovrebbe essere morto, ma dopo aver visto Eraqus riemergere dal cuore di Terra, ci si può aspettare di tutto pur di non inserire il concetto di “morte” in Kingdom Hearts.
Un faro di speranza per una futura maturazione della saga però ce lo lancia il finale segreto, che molti teorizzano essere l’emblema della separazione totale o quasi dalla Disney. In molti sperano infatti di ritrovarsi con un Kingdom Hearts 4 (o qualsiasi nome li daranno questa volta), ambientato tra i mondi dei videogiochi Square Enix, e non più tra le favole Disney. Queste ovviamente sono solo speculazione, ma come abbiamo detto, le speculazioni hanno fatto gran parte del successo della saga, e sicuramente continueranno a farlo nei capitoli a venire.