Il potere dell’arte è un qualcosa che è difficile da spiegare con la bocca. Del resto, nelle opere artistiche tradizionali come quadri, sculture o brani musicali, sono altre parti del corpo a farci da tramite, come gli occhi o le orecchie. È questo il potere dell’arte: andare dritta al nostro animo attraverso le sensazioni.
È però possibile estendere questo discorso anche al videogioco?
Nel corso dei decenni il medium è stato molto spesso accostato all’arte, a volte anche provocatoriamente, grazie alla sua capacità di immergere noi fruitori in esperienze non più esclusivamente ludiche, ma emozionali. Detto in altre parole, il videogioco non diverte e basta, ma solletica il nostro spirito.
L’aspetto più affascinante è che lo fa attraverso più livelli.
Il primo, più immediato, potrebbe essere quello dei survival horror e degli FPS. In questo caso il coinvolgimento deriva dalle sensazioni di paura o di adrenalina. Emozioni forti e istantanee, come il terrore nel sentire i passi sempre più vicini di Mr. X nel remake di Resident Evil 2, o il fomento di un headshot centrato in un qualsiasi Call of Duty.
Il secondo è quello degli action-adventure e dei GdR (anche di stampo action), in cui le meccaniche di gameplay – opportunamente diverse a seconda del genere – si poggiano su una forte componente narrativa e una resa grafica eccezionale. Che dire, ad esempio, delle selvagge cavalcate al tramonto in Red Dead Redemption 2, o del calore fanciullesco nel giocare a Kingdom Hearts III?
Il terzo è il caso delle avventure grafiche, che assottigliano all’osso il gameplay per dare tutto alla storia. Qui l’influenza della settima arte, il cinema, è preponderante perché la base del gioco è la trama. Davide Cage ha costruito la sua carriera su questo concetto.
Con il penultimo livello, il quarto, ci addentriamo nella profondità del medium, dove le meccaniche tradizionali vengono scardinate dalla visione particolare degli sviluppatori. È il caso di Journey di Thatgamecompany. Il titolo è un viaggio intimistico e meraviglioso tra le dune del deserto. Mai una parola viene proferita al suo interno, eppure non ne sentiamo la necessità. Per andare avanti, ci basta lasciarci coccolare dalla tenerezza della sabbia, dei nastri rossi, del nostro mantello smosso dal vento. Una tenerezza sensoriale che però si trasforma, dentro di noi, in una riflessione sulla solitudine.
Un discorso simile può essere fatto per Bound, la piccola produzione di Santa Monica Studios, che ci mette nei panni di una ballerina. L’intero gioco, definibile come platform, si plasma sulla danza, sulle sue eleganti movenze. Tuttavia, al ritmo leggiadro della protagonista si contrappongono le forme squadrate, aguzze, che si muovono repentinamente, creando un contrasto visivo e sonoro che genera a sua volta un senso di inquietudine, enfatizzato dal forte simbolismo dietro cui si cela la trama.
Questa discesa immaginaria tra i livelli di coinvolgimento emotivo del videogioco dimostra come, in quelli più profondi, la componente artistica diventi sempre più preponderante nel medium rispetto a quella più propriamente ludica.
Manca però un ultimo livello, il quinto.
In questo caso troviamo software house ancora più piccole, ma non per questo meno valenti. Anzi, grazie alla piccolezza del team e al poco budget possono dare libero sfogo alla creatività, senza essere vincolati dalle regole del mercato videoludico divenuto sempre più spietato.
Pur facendo questo discorso, non ci dimentichiamo mica che il videogioco è un prodotto gestito da aziende che devono ottenere profitti, ma questo non vuol dire rimanere bloccati in norme dettate dal consumismo.
Ecco quindi che un titolo come Hohokum, nato dalla collaborazione inglese del team Honeyslug e l’artista Richard Hogg, può spiazzare i giocatori tradizionali. Nessun comando, nessun dialogo, persino il protagonista è difficile da comprendere, presentandosi come una sorta di serpente la cui testa è coperta da un occhio in stile egizio. La chiave è esplorare i coloratissimi mondi e interagire con i diversi elementi che li compongono. Si tratta di un’interazione passiva, poiché non possiamo compiere azioni ben precise, dato che il nostro serpente avanza imperterrito verso l’infinito. In questo volo ignoto la scenografia e i personaggi presenti reagiscono di conseguenza, generando bombe di colori, visioni psichedeliche che rallegrano la nostra vita. A ciò si aggiunge una colonna sonora che vede artisti della techno ambient, per garantire un forte coinvolgimento sensoriale.
Può essere definito un videogioco un titolo del genere? Sì, perché si basa sull’interazione classica del videogioco, ma allo stesso tempo la reinterpreta in un modo tutto suo.
Dunque, dopo quanto detto il binomio arte e videogioco non sembra più tanto provocatorio o privo di senso, in quanto il medium riesce a pizzicare, con diverse intensità, le corde dell’emotività con tecniche e stili sperimentali, poetici, o più semplicemente artistici.
Recentemente, tra gli ultimi livelli emozionali del videogioco, possiamo godere di un titolo che a detta di molti è una piccola perla, cioè GRIS.
Si tratta di un platform realizzato dal team spagnolo Nomada Studio, e pubblicato da Devolver Digital per Nintendo Switch e PC.
Il meraviglioso sguardo della protagonista è la prima cosa che rimane impressa nell’approcciarsi al titolo.
Ma il vero elemento distintivo del titolo sono i colori, le sue linee, la sua colonna sonora.
L’avventura scorre veloce, tra sfumature cromatiche che tolgono il fiato, e quando si giunge alla fine si ha un forte senso di appagamento perché la vista ha goduto di così tanta bellezza.
Poi, non è chiaro di cosa parla GRIS. Forse della paura, forse della depressione, forse della morte. Il tema macabro del titolo è sempre presente nel corso del nostro cammino, grazie a un simbolismo molto potente, ma non ci è dato sapere quale sia il suo significato finale. Ed è appagante per questo.
Lo stile artistico di GRIS si modella in base al nostro animo.
Tuttavia in questa sede non ci interessa l’analisi tecnica del titolo, ma il concetti di arte ed emozioni nel videogioco, e GRIS permette un’analisi profonda, in grado di elevare il videogioco.
Per questo motivo abbiamo lasciato la parola ad Andrea Lanzafame, specializzato in Storia dell’Arte Contemporanea, attualmente PhD alla Scuola Normale Superiore di Pisa.
Il titolo, se letto in francese, rimanderebbe al concetto di ‘grigio’ lato sensu, e dunque ad una sorta di umore melanconico che ben si sposa col concept del gioco, fedele alla linea del senso di paura che caratterizza la protagonista.
Eppure, già graficamente risulta evidente la presenza del colore: dalle tonalità più profonde del blu, che si stemperano in tenere sfumature grazie alla tecnica dell’acquerello, ai rosa pastello che virano verso toni più caldi e terrosi, rossastri. La tavolozza, così come la soundtrack utilizzata, costruiscono insieme a chi gioca l’universo emotivo della protagonista – nonché del giocatore stesso -.
La cura per i dettagli, per i colpi di frusta delle linee, per le sfumature , altro non fanno che rimarcare la centralità dell’universo interiore dell’essere umano, la maturazione psicologica (come in un tenero romanzo di formazione/psicologico ottocentesco, rivisitato in chiave contemporanea ‘giapponese’) come percorso personale ma anche universale, i chiaroscuri dell’anima.
Stilisticamente le linee in nero ricordano certe cose dell’Art Nouveau (incisioni, litografie), intrecciandosi però ad un gusto un po’ fantasy e Nu Goth da illustrazione.
Certi fondali paesaggistici sembrano una rielaborazione minimal delle stampe giapponesi.
Tinte accostate di azzurri e rosa, tagli in diagonale dei profili dei corpi, una certa ‘liquidità’, rimandano romanticamente a una certa estetica vaporwave.
La protagonista è una ragazza: da fragile diviene però sicura, ed il mondo con il quale interagisce cambia insieme a lei. Dagli anni Settanta (anche fine Sessanta) in poi in effetti anche l’arte si gioca tutta sulle relazioni con l’ambiente, e con il pubblico: non in senso strettamente spaziale, quanto emotivo e relazionale. Credo che le connessioni da ricercare siano queste, interiori e non esteriori. Non so bene, ma in un videogame non è scontato: l’ambiente che cambia con chi lo percorre, non in base al tempo che passa come avviene normalmente, ma in base alle emozioni che li uniscono. Relazione personaggio, giocatore, forma, suono e colore. Solo un videogioco poteva cogliere il potenziale di questo intreccio.
L’analisi di Andrea Lanzafame, che non è un videogiocatore, dimostra l’impatto che può avere GRIS, e la riflessione puramente critica che il titolo può generare.
Potremmo continuare ancora a disquisire sul binomio arte e videogioco. Quel che è per ora è certo è che il medium cambia e si evolve nel tempo favorendo nuove visioni, nuovo linguaggi, nuove espressioni. Diventa sempre più un contenitore in cui i simboli della nostra società – la quale viaggia anch’essa veloce nel tempo – vengono interpretati per permetterci di comprendere meglio la realtà in cui viviamo. Proprio come fanno le opere artistiche di stampo tradizionale.