Il nome della rosa di nuovo sullo schermo

A quasi quarant’anni dalla sua pubblicazione, Il nome della rosa, romanzo d’esordio di Umberto Eco, è stato trasposto in una miniserie televisiva ideata da Giacomo Battiato, Andrea Porporati e Nigel Williams. Nato grazie alla collaborazione italo-tedesca tra RaiFiction, 11 Marzo Film, Palomar e Tele Muenchen, il programma ha esordito lunedì 4 marzo sui canali Rai ed è stato trasmesso in prima serata, sempre di lunedì, per altre 3 settimane. Quattro serate e otto episodi per coprire i sette giorni di cui si compone il romanzo da cui è tratto.

 

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La Rai verso un pubblico internazionale

Come già dimostrato con altri titoli pubblicati di recente, la televisione italiana sta puntando sempre di più a rinnovarsi. Si cerca in tutti i modi di discostarsi dal format di fiction nazional-popolare dal taglio comico e leggero per dirigersi verso le serie tv vere e proprie, per raggiungere una qualità paragonabile a quella delle produzioni europee e americane. Lo scopo è ovviamente quello di creare contenuti che possano essere distribuiti e apprezzati anche a livello internazionale.

Il percorso maggiormente seguito sembra essere quello di cavalcare l’onda del successo di alcuni dei titoli più acclamati degli ultimi anni, proponendo serie che uniscano la componente storica a elementi più avventurosi e coinvolgenti, intrighi di corte, tradimenti, violenza. Un tentativo in questo senso è stato sicuramente fatto con I Medici, che si è posto, almeno idealmente, sulla scia di opere seguitissime come I Borgia o lo stesso Game of Thrones. D’altra parte, si scommette anche sulla produzione letteraria nostrana, adattando bestseller italiani (pensiamo, ad esempio, a L’amica geniale, tratto dallomonimo romanzo di Elena Ferrante).

In un’ottica di questo tipo, Il nome della rosa si presenta come un’occasione unica per la Rai di raggiungere un pubblico sempre più vasto. Tratto da un libro che è già di per sé un classico internazionale (nel 1999, il quotidiano parigino Le Monde lo ha inserito al quattordicesimo posto nella classifica dei 100 romanzi più belli del secolo), si presenta come una perfetta commistione di generi, a metà strada tra il poliziesco e lo storico. Le dinamiche di una detective story sullo stile di Sherlock Holmes (lo stesso nome del protagonista, Guglielmo da Baskerville, è un chiaro omaggio a Il mastino dei Baskerville di Arthur Conan Doyle) si inseriscono infatti sullo sfondo del dibattito tra i sostenitori delle tesi pauperistiche e i seguaci della corrente papistica avignonese del XIV secolo.

Il nome della rosa

Lo sfondo storico de Il nome della rosa

Siamo sul finire dell’anno 1327. La Chiesa è frammentata, a causa del numero sempre maggiore di correnti eretiche che nascono al suo interno. In particolare, Papa Giovanni XXII e la sua inquisizione si trovano a dover fronteggiare tutti quei sostenitori dell’assoluta povertà di Cristo che condannano la ricchezza e il potere terreno della Chiesa. Il neonato ordine francescano, che predica la rinuncia a ogni bene materiale superfluo, si trova quindi in una fase delicatissima, in cui rischia di essere bollato come dottrina eretica. Appoggiati dall’imperatore Ludovico, i frati devono partecipare a un congresso ed esporre le loro idee, nella speranza che queste vengano accettate come conformi alla linea ufficiale della Chiesa. Come sostenitore delle tesi pauperistiche francescane viene designato frate Guglielmo da Baskerville. I delegati della curia papale sono invece guidati dall’inquisitore domenicano Bernardo Gui.

Teatro della Disputa sarà un monastero benedettino dell’Italia settentrionale, noto per la sua fornitissima biblioteca, considerata una delle maggiori fonti di sapere della cristianità.

Il nome della rosa

Stat rosa pristina nomine

La storia prende piede quando frate Guglielmo (nella serie John Turturro) e Adso da Melk (Damian Hardung), il novizio benedettino suo discepolo, giungono all’abbazia in cui si dovrà tenere il congresso. Scoprono subito la preoccupazione dell’abate Abbone (Michael Emerson) per la recentissima e misteriosa morte di uno dei suoi giovani confratelli. Sconvolto dalla tragedia e consapevole delle capacità inquisitorie di Guglielmo, Abbone affida al suo ospite la risoluzione del caso. Ma il mistero si infittisce sempre di più e quello che sembra inizialmente un crimine di gelosia, nato da amori illeciti tra i frati dell’abbazia, si trasforma ben presto in una serie di efferati omicidi legati, in qualche modo, alla famosa biblioteca. Purtroppo però questa è, per regola stessa del monastero, inaccessibile a chiunque se non al bibliotecario e al suo assistente.

La difficoltà di risolvere un caso senza poter entrare nel luogo da cui il crimine ha avuto origine dà modo a Guglielmo di mostrare tutta la sua intelligenza e arguzia. Nella serie, Turturro riesce a far trasparire la conoscenza e la cultura del personaggio, trasmettendo allo stesso tutta l’umanità che lo contraddistingue. La sua figura di uomo estremamente razionale, che confida nella scienza più che nella religione ottusa, si pone in netto contrasto con quella di Bernando Gui, interpretato magistralmente da Rupert Everett. Il potere della cultura è quindi esaltato nella lotta contro l’ignoranza e le superstizioni, in un approfondimento quanto mai attuale.

Dal libro alla serie

La fedeltà al libro è evidente soprattutto nei dialoghi, spesso riportati quasi parola per parola. Le vicende però risultano un po’ edulcorate rispetto all’originale e alcune scene, molto romanzate, rischiano di far scivolare la serie ai livelli delle solite fiction romantiche firmate Rai. In particolare, si indugia troppo sull’aspetto romantico dell’incontro tra Adso e la giovane occitana, perdendo moltissimo del senso di colpa che affligge il novizio per il suo peccato carnale e non rendendo neanche minimamente la squisitezza letteraria, piena di riferimenti biblici e citazioni, con cui l’episodio era narrato da Eco.

A discostarsi maggiormente dal romanzo è poi l’inserimento di una storyline dedicata all’eretico Fra’ Dolcino (Alessio Boni), alla sua compagna Margherita e alla loro figlia Anna (entrambe le donne sono interpretate da Greta Scarano). Sebbene contribuiscano a dare un taglio più attuale alla serie, permettendo di trattare tematiche quali la condizione della donna, questi intermezzi risultano confusionari e quasi estranianti, strappando lo spettatore dal procedere delle investigazioni di Guglielmo.

il nome della rosaIl salto di qualità delle produzioni Rai

Scegliere di trasporre questo capolavoro indiscusso per il piccolo schermo comporta certo dei rischi, e per più di un motivo. Lo stile di Eco, spesso citazionistico e ricco di lunghe digressioni teologiche e filosofiche, sembra quasi incompatibile con un formato che si basa principalmente sulle immagini e sull’azione. Inoltre, il successo ottenuto nel 1986 dal film di Jean-Jacques Annaud (con Sean Connery nei panni di Guglielmo e Christian Slater nel ruolo di Adso) pesa senza ombra di dubbio sulle spalle dei produttori.

Nonostante i primi episodi risultino lenti e molto didascalici, a causa soprattutto delle numerose scene in cui si presentano i vari monaci e i loro ruoli all’interno dell’abbazia, la serie esce comunque a testa alta dal confronto. Certo, il livello non eguaglia quello della pellicola di Annaud e neppure si può dire che la serie possa competere appieno con altri titoli americani o europei, ma il salto di qualità rispetto alle produzioni Rai a cui siamo abituati c’è e lo sforzo per cercare di raggiungere gli standard delle serie internazionali è apprezzabilissimo.

Una menzione particolare va alla fotografia, che forse indugia troppo sulle atmosfere monocromatiche e sui colori desaturati, ma che raggiunge comunque livelli molto alti.

Sara Zarro
Non sono mai stata brava con le presentazioni, di solito mi limito a elencare una serie di assurdità finché il mio interlocutore non ne ha abbastanza: il mio animale preferito è l’ippopotamo; se potessi incontrare un personaggio letterario a mia scelta questi sarebbe senz’altro Capitan Uncino; ho un’ossessione per la Scozia, l’accento scozzese e i kilt, derivata probabilmente da una infatuazione infantile per il principe della collina di Candy Candy; non ho mai visto Harry Potter e i doni della morte per paura di dover chiudere per sempre il capitolo della mia vita legato alla saga… Ah, ho anche un pony.