Che cosa porta autori come Ian McEwan a negare di scrivere fantascienza, anche quando le loro opere sono evidentemente di fantascienza?
L’ultimo romanzo di Ian McEwan uscito da poche settimane si intitola Machines Like Me, ed è ambientato in una Londra degli anni ’80 in cui sono presenti androidi capaci di provare emozioni, realizzati grazie al genio di Alan Turing che è ancora vivo invece di essersi suicidato nel 1954.
Il pluripremiato autore inglese ci porta così a esplorare una dimensione narrativa nuova, in cui un mondo diverso da quello che conosciamo viene utilizzato come spunto per riflettere sulla nostra attualità. Si può anzi dire che Ian McEwan ha di fatto inventato un genere nuovo, in cui l’immaginazione di scenari plausibili dal punto di vista tecnologico e sociale costituisce l’impalcatura per la costruzione di vicende che esplorano emozioni umane e temi filosofici. Se solo esistesse anche un nome per definire questo nuovo genere…
Non è “solo” fantascienza
Fermi tutti, forse quel nome esiste davvero! Qualcosa come “fantascienza”, in originale “science fiction” ovvero fiction (come viene definita tutta la narrativa) su base scientifica. Ma siamo sicuri che sia davvero il termine adatto? Anche ammesso che la fantascienza esista, la storia di Ian McEwan può davvero inserirsi all’interno di questo genere? Chiediamo all’autore cosa ne pensa. In un’intervista al Guardian, McEwan ha dichiarato:
Potrebbe esserci l’opportunità per gli autori di uno spazio mentale da esplorare nel futuro, non nel senso dei viaggi a velocità ultraluce con gli stivali antigravità, ma nell’affrontare il dilemma umano di trovarsi vicino a qualcosa che si sa essere artificiale ma può pensare come una persona. Se una macchina assomiglia così tanto a un umano che non si può notare la differenza, allora bisognerebbe iniziare a chiedersi se anch’essa ha delle responsabilità e dei diritti.
Discorso molto interessante, se non fosse che queste cose la fantascienza le fa più o meno da sessant’anni. Se anche si vuole ammettere che nell’epoca in cui la narrativa sci-fi è diventata popolare, la cosiddetta Golden Age delle riviste pulp americane tra la fine degli anni ’30 e la metà dei ’50, il modello di riferimento era proprio quello dell’avventura con astronavi e stivali antigravità (ma anche questa è una semplificazione), non si può poi riconoscere che a partire dagli anni ’60, con la New wave, l’attenzione degli autori di fantascienza si sia rivolta soprattutto alle tematiche sociali e ai dilemmi morali come quelli proposti da McEwan.
Ma del resto questo aspetto è sempre stato alla base del genere, basti pensare a quali sono i temi di Frankenstein di Mary Shelley, spesso considerato come il primo vero testo di fantascienza, quando ancora non esisteva questo termine.
In realtà le parole di Ian McEwan si inseriscono in una tradizione consolidata di autori literary fiction che di quando in quando “scoprono” la fantascienza e ne fanno proprio territorio di conquista, salvo ribadire che la loro non è assolutamente fantascienza. Uno dei casi più famosi è quello di Margaret Atwood, che rifiutava l’etichetta di fantascienza per Il racconto dell’ancella, la distopia fondamentalista cristiana da cui è stata tratta anche la serie Hulu (la trovate su TIMvision).
Tra gli altri autori a cui comunemente si applica questa ambigua doppia morale si possono citare Kazuo Ishiguro, Vladimir Nabokov, Michel Houellebecq, Cormac McCarthy, Philip Roth, Michel Faber, David Mitchell, Christopher Priest, fino anche a Michael Chrichton, che è un caso più anomalo perché rimane un autore “di genere”, ma il suo genere di appartenenza è il thriller anche quando scrive tutt’altro. Il commento che viene solitamente riservato alle loro opere dalla critica, dai lettori e a volte anche dagli stessi autori, è che queste storie non sono “solo” fantascienza. Dando a intendere che la fantascienza è quella roba lì: le astronavi e gli stivali antigravità, magari i bug-eyed-monsters e le signorine con le tute aderenti argentate e scollacciate. L’immaginario derivato appunto dalle riviste su cui la fantascienza ha avuto la sfortuna di affermarsi.
Gli autori e la critica ci tengono quindi a prendere le distanze, ritenendo che un’associazione a quel tipo di immaginario sia dannosa. D’altra parte oggi la fantascienza, soprattutto nelle sue emanazioni cinematografiche, si sta a sua volta legando alla cultura pop (come sta succedendo a tutta la cultura nerd), ed è pertanto comprensibile che un certo tipo di autori voglia ribadire la propria estraneità ai fenomeni di massa.
Questo succede anche in casi piuttosto eclatanti in cui opere dichiaratamente di fantascienza, ma che hanno anche una loro profondità e complessità letteraria, vengono forzatamente portate fuori dal genere. Il mondo nuovo di Huxley, Cronache marziane di Bradbury, Mattatoio n. 5 di Vonnegut, I reietti dell’altro pianeta di Le Guin: tutti libri di cui si sente dire quell’odiosa frase: “non è solo fantascienza, è letteratura”.
Fantascienza vs speculative fiction vs distopia vs…
Secondo alcune scuole di pensiero il problema risiede proprio nella terminologia. La parola “science fiction” si porta dietro un’eredità pesante ed è associata nell’inconscio collettivo a un certo tipo di spettacolarità soprattutto visiva, quella dei grandi film blockbuster straripanti di CGI.
Sulle locandine del cinema infatti è facile vedere l’etichetta fantascienza per un film come Transfomers o 2012, molto meno per qualcosa come Her oppure I figli degli uomini. E non parliamo del caso ambiguo di Star Wars che da decenni divide la comunità degli appassionati di fantascienza sulla sua appartenenza o meno al genere. C’è da dire che gli appassionati si dividono anche sul diverso significato dell’abbreviazione “sci-fi” rispetto a “sf”, per cui non è certo un ambiente sereno in cui muoversi.
Forse per questo sono nate decine di alternative ed eufemismi per poter indicare questo genere senza usare la parola con la F. Quando la storia ruota intorno a un ispettore che deve risolvere l’omicidio di un cyborg in una metropoli futuristica, allora è un techno-thriller. Se invece ci muoviamo in un’ambientazione molto simile al mondo contemporaneo ma con qualche piccolo aggiornamento tecnologico, sociale o politico, si parla di narrativa d’anticipazione. Oppure c’è il realismo aumentato, che è a sua volta un modo vago di intendere una storia con elementi estranei alla realtà, a volte a metà strada tra fantascienza e weird. Infine c’è la cara vecchia distopia, che negli ultimi tempi sta diventando un genere che abbraccia sempre più storie che di distopico hanno ben poco, se non la presenza di un qualche tipo di società futura viziata da consuetudini poco gradevoli.
Ma forse il termine più in voga al momento e sostenuto da numerosi addetti ai lavori (tra cui appunto la Atwood) è speculative fiction: narrativa che si basa su un qualche tipo di speculazione, ovvero quel famoso “what if?” che sta alla base di ogni storia di fantascienza.
L’aspetto positivo di questa definizione è che con “speculazione” si possono intendere un sacco di cose, anche non strettamente scientifiche. What if si potesse ridare vita a un corpo composto da parti di cadaveri? Ecco Frankenstein. What if sulla luna fosse sepolto un monolito che aspetta di essere scoperto? Ecco Odissea nello spazio. What if la Germania e il Giappone avessero vinto la seconda guerra mondiale? Ecco La svastica sul sole. What if esistessero automi perfettamente uguali alle persone e in grado di provare emozioni? Ecco Machines like me. O meglio, a voler essere precisi, ecco centinaia di storie già scritte negli ultimi ottant’anni…
Quando gli autori riscoprono la fantascienza
In un genere come la fantascienza, che per sua natura è più high concept che character driven, l’originalità delle idee è importante. Ma solo uno autore sprovveduto può pensare che l’originalità sia un valore assoluto, e che le sue idee non siano già state concepite e probabilmente anche pubblicate da qualcun altro.
Se dopo la prima storia sui robot nessuno avesse più scritto sull’argomento, non avremmo le Leggi della Robotica di Asimov, ma neanche Blade Runner e men che mai Machines Like Me. Non c’è niente di cui vergognarsi a sfruttare concetti e temi già trattati in passato, perché l’abilità dell’autore sta proprio nel prendere un’idea e renderla appassionante per il lettore, grazie al lavoro su trama, personaggi e stile. D’altra parte, la stessa esistenza della fantascienza in quanto genere, come del resto qualunque altro genere narrativo, si basa proprio sull’accumulo di una serie di tematiche codificate, una tradizione consolidata al punto che certe idee hanno avuto il tempo di passare da innovative a cliché, per diventare infine dei topoi.
Per questo è particolarmente fastidioso quando un autore che si dichiara estraneo alla fantascienza se ne esce con delle idee che sono parte di questo bagaglio codificato e le spaccia come novità, rivoluzione, territorio inesplorato su cui piantare la propria bandiera. Ora, nessuno pretende che un lettore abbia la conoscenza completa di tutta la storia della fantascienza prima di approcciarsi a un nuovo libro: si può leggere La guerra contro gli Chtorr senza prima aver letto La guerra dei mondi, non c’è niente di male.
Ma per lo scrittore il discorso è diverso: uno dei doveri fondamentali dello scrittore, o per lo meno del bravo scrittore, è quello di documentarsi, di conoscere la materia di cui tratta. E se stai parlando di Alan Turing ancora vivo e di robot con una coscienza, non puoi non confrontarti con le ucronie di Harry Turtledove e i replicanti di Philip K. Dick. Ma anche se proprio non vuoi fare la fatica di andarti a ripescare tutti questi testi, possibile che tu non abbia mai nemmeno sentito parlare negli ultimi tre anni di Westworld, dove in risposta al dilemma sulla differenza tra umano e androide, viene letteralmente utilizzata la risposta “se non puoi notare la differenza, importa davvero?”
Se Ian McEwan avesse scritto una storia in cui un gruppo di persone che non si conoscono si trova chiuso in una casa dove vengono uccise una alla volta e non si capisce chi di loro sia l’assassino, sarebbe stato comico se lo avesse presentato come un’idea nuova e straordinaria. Il primo recensore di passaggio gli avrebbe fatto notare che era esattamente la stessa cosa di Dieci piccoli indiani.
Poi McEwan sarebbe stato liberissimo di pubblicarlo comunque, affermando però che si tratta di una sua riproposizione del classico di Agatha Christie. Fare il contrario, e insistere che quella storia sia qualcosa di mai visto prima, può voler dire solo due cose: ignoranza o mala fede. Ed è difficile stabilire quale delle due sia peggiore per uno scrittore, soprattutto visto che non si sta parlando dell’ultimo autore fanfiction su Wattpad, dal quale ci si potrebbe aspettare entrambe, ma di uno scrittore di livello internazionale, le cui parole hanno un certo peso specifico, e che è sicuramente supportato da una squadra di agenti, editor e uffici stampa. Possibile che a nessuno dei suoi collaboratori sia saltata all’occhio questa evidente contraddizione?
Fantascienza in incognito
Forse il punto è proprio quello. Se come si diceva all’inizio, il termine “fantascienza” si porta dietro una nomea poco edificante per un autore di questo profilo, può darsi che il Team McEwan abbia coscientemente deciso di puntare contro l’evidenza dei fatti e affermare che Machines Like Me non è fantascienza. Una decisione di marketing, insomma.
D’altra parte se consideriamo la fantascienza come una categoria merceologica, cioè come un’etichetta utile soprattutto a identificare un certo scaffale all’interno della libreria, allora si può capire che il marketing che sta dietro un autore faccia pressione affinché quella etichetta non venga applicata, considerate le dimensioni ridotte di quello scaffale nelle librerie e il livello medio dei titoli presenti: a parte qualche grande classico (Asimov, Bradbury, Clarke, Ballard), lo spazio è occupato sopratutto di novelization di film/videogiochi e narrativa young adult, categorie che non vengono in genere considerate come “vera letteratura”.
È una considerazione questa che devono aver fatto in molti, visto che ultimamente a cercare bene si trovano titoli di fantascienza al di fuori del reparto dedicato. Sempre più autori, consapevolmente o meno, scrivono storie con elementi tipici della fantascienza, salvo poi omettere questa classificazione, certo con il benestare dell’editore e degli uffici marketing. Così ci troviamo a leggere Ragazze elettriche e Amatka, oppure The Prestige e Il libro delle cose nuove e strane senza che nessuno ci abbia avvisato che stiamo leggendo fantascienza. Qualche lettore lo capirà da solo, qualcun altro no, qualcuno non si porrà il problema.
E forse il problema in fondo non esiste davvero. Una delle tante lezioni che si possono apprendere dalla fantascienza (pardon, speculative fiction), è che cose che in apparenza sembrano molto diverse, forse quasi opposte, alla fine sono molto simili: il robot non è così diverso dall’umano, l’alieno non è così diverso dal terrestre, il futuro non è così diverso dal passato. E il tuo libro di literary fiction non è così diverso dal mio di fantascienza. Come d’altra parte ci ha insegnato Ian McEwan, se non puoi notare la differenza, importa davvero?
Addendum: gli autori italiani di quasi-fantascienza
Il fenomeno di separazione tra fantascienza e mainstream è ben presente anche qui da noi, e sono molti gli autori del panorama italiano che si sono approcciati al genere pur senza entrarvi del tutto. Anche in questo caso troviamo molti libri che sarebbero etichettabili come fantascienza ma sono stati proposti senza nessun riferimento al genere. Con questa constatazione non si vuole dire che l’autore sia stato disonesto catalogare la sua opera, poiché in questi casi non sono seguite dichiarazioni paradossali come quelle di Ian McEwan.
Sembra quasi superfluo citare scrittori come Italo Calvino, Dino Buzzati e Primo Levi, che hanno pubblicato storie di fantascienza apprezzate da tutti ma per qualche ragione in rarissime occasioni riconosciute come tali. Almeno in Italia, visto che Calvino è stato finalista nel 1975 per il Premio Nebula, uno dei massimi riconoscimenti internazionali per le opere di fantascienza, con Le città invisibili.
Spostandosi verso autori contemporanei, tra quelli di primo piano che si addentrano nella fantascienza pur rimanendone al di fuori ci sono i Wu Ming, che non disdegnano inserire trame e idee tipiche del genere, come si è visto di recente anche con Proletkult, e Tullio Avoledo, che deve il suo successo a distopie, ucronie e viaggi nel tempo, e ha anche ambientato nell’universo di Metro 2033 i romanzi Le radici del cielo e La crociata dei bambini. Un altro dei casi più famosi degli ultimi anni è quello di Anna di Niccolò Ammaniti, un romanzo postapocalittico in cui la popolazione adulta viene sterminata da un virus e al mondo rimangono solo adolescenti.
Tra le altre opere ancora più recenti che si muovono sul confine tra la narrativa realista e quella di genere troviamo XXI Secolo di Paolo Zardi, Neghentopia di Matteo Meschiari, Un attimo prima di Fabio Deotto, Genesi 3.0 di Angelo Calvisi e Un marito di Michele Vaccari. Sicuramente esistono decine di altri autori e romanzi che rispondono a queste caratteristiche, ma proprio per l’assenza di classificazioni esterne non si può fare altro che leggerli tutti e scoprire da soli che cosa contengono. In genere comunque li si trova con più facilità nel catalogo di piccoli-medi editori, che possono osare di più nel proporre titoli borderline.
Per chi ha la curiosità di provare questo approccio alla quasi-fantascienza italiana, un buon punto di partenza possono essere alcune antologie che raccolgono racconti con un’ottica di questo tipo: Propulsioni d’improbabilità pubblicato da Zona 42 curato da Giorgio Majer Gatti (che contiene anche un’introduzione approfondita sulla storia della fantascienza italiana dal punto di vista accademico), e Intanto da qualche parte nello spazio pubblicato da Gorilla Sapiens. Meno apprezzato dagli addetti ai lavori Urania 451, numero speciale della prestigiosa rivista letteraria Nuovi Argomenti dedicato alla fantascienza, che sembra riproporre anche nei saggi introduttivi proprio quell’atteggiamento paternalistico della “letteratura vera” nei confronti di un genere minore.