La nuova Sirenetta Ariel è nera. E quindi?
La polemica del giorno: la Disney ha annunciato la nuova Ariel. Unico problema, è nera.
Ogni mattina, una gazzella di Facebook si alza e sa che una nuova polemica è là ad attenderla. Ogni mattina, un leone da tastiera sa che dovrà capslockare più forte degli altri perché il suo ruggito di indignazione si possa sentire, forte e chiaro per tutto l’Internet. Non importa che tu sia leone o gazzella, l’importante è che tu dia la tua opinione anche quando nessuno te la chiede.
La notizia è delle ultimissime ore: nell’ormai ininterrotta ondata di remake e live action che Mamma Disney sta schedulando per i nuovi (e i vecchi) spettatori, una presenza oscura è emersa dalle profondità dell’oceano. Ne La Sirenetta, che sarà diretto dal maestro del musical Rob Marshall, la protagonista avrà il (bel) volto e la (bella) voce di Halle Bailey.
Vorrei la pelle nera
Giovanissima (è nata nel 2000, probabilmente molti di voi avranno jeans più vecchi di lei), con uno sguardo dolce e luminoso e già tre anni di carriera da pop star alle spalle, Halle ha un solo “difetto” che – a quanto pare – molti commentatori del web non possono proprio perdonarle: è nera. Con buona pace di Marshall che l’ha scelta proprio per il perfetto connubio tra “Spirito, cuore, giovinezza, innocenza e spessore – oltre a una voce fantastica”, a molti il colore della sua pelle proprio non va giù.
Chiaramente se scegliamo di adottare il criterio della somiglianza con l’Ariel del 1989, avremo difficoltà a ritrovare la pelle candida della sirenetta e la sua iconica chioma rossa. Appurato che un’iconica chioma rossa la si può mettere anche alla giovane Halle (oppure credevate che la nuance fiammeggiante di Ariel fosse naturale?) e che non sappiamo che look avrà, davvero la pelle bianca è così indispensabile per il personaggio?
Ariel bianca, Ariel nera.
Licenze e libertà de La sirenetta del 1989
Sappiamo tutti che La Sirenetta Disney è stata ispirata dalla fiaba di Hans Christian Andersen, pubblicata per la prima volta nel 1837. Sappiamo anche che una statua che ritrae la sua protagonista trionfa, dolce e malinconica, sul lungomare di Copenaghen. Allo stesso modo, sappiamo perfettamente che la pigmentazione tipica delle danesi non è più scura di un bicchiere di latte.
Ma sappiamo quanto il cartone animato Disney si sia solamente ispirato all’originale, e quante licenze gli sceneggiatori John Musker e Ron Clements si siano concessi per adattare la cruda storia di Andersen al pubblico innocente degli anni Ottanta?
Esaminiamo il finale: sapevate che, dopo aver ricevuto il benservito dal principe, la Sirenetta era stata condannata a trasformarsi in schiuma del mare dopo essere morta di crepacuore (un modo arcaico e piuttosto suggestivo di chiamare l’infarto)? E sapevate che per evitarle questa brutta fine, le sue sorelle le avevano portato un pugnale stregato con cui accoppare il principe e riprendersi la libertà? La buona e dolce Sirenetta, però, si rifiuta e muore. Sì, muore. Magra consolazione vuole che, invece che in schiuma, si trasforma in uno spirito marino destinato ad aspettare 300 anni di “buone intenzioni” prima di volare in Paradiso. Ma la Sirenetta comunque muore.
Perché allora Musker e Clements hanno cambiato il finale? Perché Acquata, Arista, Adella e Ariana non hanno invitato Ariel a tagliare la gola al confuso principe Eric? Buonismo. Il necessario, irrinunciabile e responsabile buonismo disneyano. Quindi, se si urla allo scandalo in nome di una fedeltà filologica alla fiaba, non ci siamo per niente: è inevitabile adattare le storie ai tempi in cui sono pubblicate. Anzi: non solo è inevitabile, ma è sano e necessario.
E, poi, perché questa polemica non è scoppiata quando è uscito al cinema La principessa e il ranocchio nel 2009? Anche là la fiaba originale è stata sottoposta a blackwashing, ma questo è successo dieci anni fa, quando i leoni da tastiera erano ancora cuccioli dei social.
Ariel Nera? Buonisti!
Tra le accuse fatte dal popolo del web circa la scelta della protagonista del live action de La Sirenetta abbiamo quella di buonismo. Questo termine di recente è diventato piuttosto ricorrente nel linguaggio comune, come una parola magica per mettere a tacere chiunque esprima un’opinione di accoglienza e rispetto delle diversità.
Il politically correct è diventato il male che affligge l’arte, la comunicazione, persino le coscienze individuali: per questo, se Ariel diventa nera, all’improvviso la condotta Disney – che praticamente ha inventato il politically correct – diventa inaccettabile. Ogni cartone animato della Disney, però, anche quelli che tanto amiamo e rimpiangiamo, proprio quelli che guai se ce li toccano, è la quintessenza del buonismo. E meno male!
Sono tra i film più guardati di tutta la Storia e di tutto il mondo. In molte occasioni hanno una funzione didattica o – comunque – hanno una fortissima influenza sui comportamenti dei giovani spettatori. Vorremmo davvero che il politicamente scorretto diventi parte del linguaggio e dell’atteggiamento di bambine e bambini in età scolare? L’umorismo graffiante e anticonvenzionale si potrà scoprire più tardi, negli anni dell’adolescenza e dell’età matura.
A ognuno, insomma, spetta il prodotto più indicato. Tanto meglio che la buonista Disney voglia insegnare che la pelle nera non è una connotazione negativa o che le principesse non sono (più) delle creature inermi in attesa di essere salvate, sposate e ingravidate. L’allarme di chi urla “Avete distrutto un sogno della mia infanzia” o “Che ca**o c’entra la Ariel nera?” è razzista, miope e ottuso. E, se non è chiaro, di seguito vi spieghiamo il perché.
Aiutiamoli a casa loro
Affermare che il mondo ruoti attorno al fenotipo caucasico è ormai un’opinione antiquata, che si dovrebbe trovare a suo agio nel 2019 più o meno quanto Salvini in un convegno di Amnesty International. Quindi poco o nulla.
Il fatto che al mondo non tutti siamo bianchi ci porta a spiegare perché la prossima eroina Disney avrà la pelle scura: perché FINALMENTE la più grande major dell’intrattenimento per l’infanzia (e non solo) prende in considerazione l’esigenza di immedesimazione anche di quelle bambine (e sono tante, eh? E vanno anche al cinema!) scure di pelle che per un secolo intero hanno dovuto adeguare i propri standard a principesse dalla pelle candida.
Non dev’essere facile per nessuno sentirsi costantemente inadeguato e diverso dai modelli estetici dominanti: ecco perché, da Oceania a Coco, la Disney ha esplorato costumi e tradizioni di popolazioni differenti da quelle sino ad allora trattate (ovvero quelle europee/nord americane).
L’operazione, a dirla tutta, era già iniziata, oltre che con La principessa e il ranocchio, con Mulan (1998) e, prima ancora, con Pocahontas (1995). Per tutti questi titoli nessuno si è scandalizzato più di tanto, anzi. La differenza, però, è che in quei casi (tranne che ne La principessa e il ranocchio) questa varietà etnica era applicata anche a un certo esotismo narrativo, che andava a riprendere leggende e racconti delle popolazioni rappresentate. Insomma, la Disney li ha aiutati nelle storie loro.
Ma Ariel-Halle Bailey è diversa, lei ha oltrepassato i confini di una fiaba bianca, bianchissima, e l’ha fatto in un periodo in cui il dibattito è alimentato costantemente dalla lamentela e dalla polemica.
La Sirenetta: un’eroina per tutti
Torniamo alla domanda iniziale: davvero la pelle bianca è così indispensabile per il personaggio?
Ariel è un archetipo, rappresenta la ribellione dell’adolescenza, l’irrequietezza necessaria per costruire la propria identità, il bisogno innato di fare delle scelte e di sbagliare. La principessa di Atlantide (per la cronaca: non sappiamo se gli abitanti di Atlantide fossero bianchi o neri) è una dei personaggi più amati dell’Universo Disney proprio perché imperfetta, imbranata, ingenua e pura.
Il suo essere così acerba e insicura la porta a consegnare se stessa, suo padre e il suo regno nelle mani della terribile strega Ursula, ma il suo coraggio le permetterà di mettere tutto a posto e di realizzare, infine, il suo sogno. Ariel piace perché ci si immedesima nell’errore e si prende esempio nel suo modo di risolverlo. E tutto questo non ha nulla, ma davvero nulla a che vedere col colore della pelle.