Arriva l’epilogo di Orange Is the New Black, che con la sua settima stagione raggiunge una profondità narrativa fondamentale per la nostra attualità
Dite la verità: se pensate di primo acchito ai criminali rinchiusi nelle carceri, la prima cosa che vi viene in mente sono i loro reati, non le persone che vi sono dietro.
Orange Is the New Black, una delle serie storiche di Netflix, ha avuto il merito di mostrare il lato umano nascosto tra le detenute del carcere federale di Litchfield.
Da Piper Chapman ad Alex Vauss, passando per Gloria e Dayanara, fino ad arrivare a Suzanne e Taystee: la commedia drammatica ambientata dietro le sbarre ci ha portato ad affezionarci al vasto corollario di donne, guardie – o più semplicemente di persone che costellano l’opera.
Con l’arrivo della settima stagione, si conclude il caleidoscopico viaggio iniziato nel 2013, dedicato non solo al mondo femminile senza filtri, bensì al mondo e basta, fatto di ingiustizie, prepotenze, abusi, ma anche d’incredibile umanità e altruismo, fondamentali per superare quanto delineato prima.
Ci addentriamo dunque nell’analisi dell’atto finale, perché consolida Orange Is the New Black come una delle produzioni seriali più profonde e sensibili della nostra contemporaneità, in cui tutti gli esseri umani possono rispecchiarsi.
Tra animali in gabbia e persone in cerca di libertà
Le dinamiche con cui si apre la settima stagione di Orange Is the New Black vedono Piper ritornata come donna (semi)libera a New York, schiacciata dalle responsabilità della vita metropolitana, fondata non più sulla legge del più saggio o del più furbo, ma nuovamente sull’apparenza più frivola e sul materialismo tipicamente bianchi.
Un percorso non certo semplice da affrontare, specie se la moglie ufficiosa, Alex, deve ancora scontare tre anni di galera.
Se le sorti della coppia più turbolenta della serie possono sembrare ardue, in realtà è Taystee a dover affrontare una realtà ancora più spietata: con la conclusione della sesta stagione, la formosa ragazza afroamericana ha perso la sua solarità combattiva dopo essere stata dichiarata colpevole – ingiustamente – della morte dell’agente Piscatella durante la rivolta scoppiata nella quinta stagione, e per questo punita con il carcere a vita.
Una situazione di ingiustizia che lascia sprofondare la ragazza nella depressione, incapace di riprendere i rapporti con l’unica ancora di salvezza rimasta: Suzanne.
Per quanto riguarda il gruppo delle latine, Gloria è rinchiusa in isolamento con Red, mentre Dayanara, anche lei ergastolana, cede al potere distruttivo della droga, ammaliata da Daddy, la boss del blocco di Massima Sicurezza in cui si trovano le nostre principali protagoniste.
In questa situazione, il carcere federale di Litchfield viene scosso da profondi cambiamenti interni: Caputo non ha più alcuna voce in capitolo, mentre Fig viene allontanata sempre più da Linda, la manager che per l’appunto fa del materialismo e dell’apparenza i suoi mantra per la crescita aziendale della PolyCon.
Proprio per questo è necessario un nuovo direttore, da trovare tra i poliziotti, che porti a consistenti risparmi, senza inficiare i delicati equilibri tra le detenute. Non certo per il loro bene, quanto per non danneggiare l’immagine dell’azienda.
È da qui che parte l’inizio della fine. Non a caso è il titolo della prima puntata dell’ultima stagione.
Eppure, l’atto finale di Orange Is the New Black non è incentrato esclusivamente sui personaggi noti, ma utilizza le loro vicende per portare a galla nuove tematiche e nuovi volti.
A tal proposito, ricordate la conclusione della sesta stagione, con Blanca sequestrata poco prima che potesse riabbracciare (usiamo un termine edulcorato vista la forte passionalità) Diablo?
Ebbene, tra le nuove politiche della PolyCon vi è l’intromissione dell’ICE, ovvero il centro di detenzione per immigrati clandestini.
Ispaniche, arabe, asiatiche, africane: tutte coloro che hanno calpestato il suolo statunitense illegalmente, vengono catturate, separate dalle loro famiglie, e rinchiuse in una sala comune fino a quando un giudice non deciderà se espellerle dal paese o meno.
Orange Is the New Black come inno all’umanità
La presenza dell’ICE permette alla serie di spingersi verso tematiche tanto delicate quanto tremendamente attuali e reali.
Tra le nuove protagoniste della settima stagione vi sono madri strappate ai figli, donne fuggite dai loro paesi perché a rischio uccisione, donne stuprate. Donne che hanno superato tutto questo, spinte dal desiderio di cominciare una nuova vita nel paese delle libertà per antonomasia, che ha fatto del melting pot, del minestrone di etnie, uno dei suoi valori fondanti: gli Stati Uniti.
In realtà quel paese oggi le teme, e per questo nega loro ogni diritto primario.
Quanto descritto non viene affrontato per meri fini drammatici – sebbene a livello emotivo colpiscano fortemente -, ma viene usato come specchio degli Stati Uniti di Trump, fondati sulla paura dell’altro, del diverso, di coloro che hanno il colore delle pelle diverso e professano un’altra religione.
Se la scorsa stagione metteva in rilievo, attraverso la storia di Taystee e Poussey, il movimento Black Lives Matter, nato nel 2013 in seguito all’uccisione da parte di poliziotti bianchi di Trayvon Martin, un diciassettenne afroamericano, la settima critica apertamente la politica del terrore di Trump, che ha portato, tra le altre cose, alla separazione di bambini dai genitori immigrati, per un tempo indefinito. Le scene di genti ammassate in sale e circondate da forze dell’ordine, rimandano alle fotografie e ai reportage di cronaca diffusa dai quotidiani internazionali, come quello del The Guardian.
Tuttavia, grazie alla solidarietà nata tra le detenute, guardie ed immigrate, persino il lato più oscuro e irrazionale del paese può essere sconfitto.
Come abbiamo precisato nell’introduzione di questo articolo, Orange Is the New Black non è uno spaccato del mondo femminile, ma è una raffigurazione, sì romanzata ma pur sempre veritiera, della realtà umana. Nella serie – e in particolare modo nell’ultima stagione – al cinismo più becero dei più si oppongono tutte le persone – poco importa se poliziotti, dirigenti o criminali – dotate di un briciolo di umanità, pronte a mettere da parte le loro priorità per il bene comune.
Di conseguenza, accanto alla questione migranti, viene evidenziata l’esasperazione del movimento MeToo, che da una parte ha liberato le donne dal peso delle molestie sessuali subite, ma da una parte è stato usato come pretesto per affossare la carriera di uomini ingenui.
Insomma, attraverso l’amara ironia tipica della serie, rappresentata perfettamente dalla meravigliosa Nicky Nichols (Natasha Lyonne), Orange Is the New Black si insinua in tematiche spinose, facendoci sorridere, arrabbiare e commuoverci in una sequenza quasi istantanea.
Accanto alla profondità degli argomenti trattati, la settima stagione è soprattutto l’epilogo perfetto di un’esperienza durata sette lunghi anni, resa incredibile dalla caratterizzazione di personaggi, che nei tredici episodi finali raggiunge altre vette, permettendoci di scoprire risvolti inediti, difficili da immaginare, e per questo ancora più apprezzabili.
Piper, Red, Taystee, Alex, Lorna, Gloria, Maria, Caputo, Fig, Ward, Lusheck e la fitta schiera di uomini e donne che abbiamo imparato ad amare/odiare durante gli anni, ci mostrano nuovi lati del carattere, per giungere a una conclusione emozionante, che in certo senso distrugge e soddisfa gli appassionati, tra novità inaspettate ed elementi rincorrenti che strappano più di un sorriso.
Per farvi capire, ricorriamo all’esempio della detenuta apparsa in ogni stagione, sempre pronta a piangere al telefono e a porgere fazzoletti alle altre inquiline della prigione. Ma sappiate che è solo una piccola parte dei riferimenti nostalgici a cui siamo stati abituati.
Queste numerose chicche, assieme alla sensibilità nel trattare questioni a noi vicine attraverso lo stile caratteristico della serie, rendono la settima stagione di Orange Is the New Black una fine praticamente perfetta, che guarda con rispetto alla sua narrazione precedente, ma allo stesso tempo non teme di osare e di mettere in mostra i paradossi del mondo occidentale.
Gli animali descritti da Regina Spektor nella sigla iniziale, al termine del viaggio, dimostrano di essere diventati bestie prive di sentimenti o persone dai risvolti meravigliosi.
Per tutti questi motivi, la settima stagione di Orange Is the New Black è una visione obbligatoria per tutti coloro che hanno seguito con costanza la produzione Netflix, ma è anche il pretesto, per i curiosi indecisi, per cominciare a vedere una delle serie più impattanti dei nostri tempi, in grado di dare voce, senza alcuna forzatura, alle miriadi di donne e uomini, liberati dai cliché e dalle rappresentazioni stereotipate; alle tossicodipendenti; alle detenute; alle persone che credono che l’amore sia libero da etichette e restrizioni culturali; alle minoranze etniche che finora non hanno trovato spazio nelle produzioni mediali mainstream. In poche parole, all’umanità nelle sue diverse e incredibili sfaccettature.