David Fincher e il cattivo: una storia d’amore senza fine
L’articolo contiene spoiler su qualche film di David Fincher
Mindhunter è soltanto l’ultima creatura di David Fincher che manifesta il suo amore – o, se vogliamo, la sua ossessione – per il cattivo. Più semplicemente, guardando l’altra faccia della medaglia, ha capito che il villain piace al pubblico, in qualunque forma si decida di metterlo sulla scena.
L’assassino e ancor di più il serial killer dona ai film e alle serie televisive un plus, un qualcosa che fa drizzare le antenne dello spettatore, che fa leva sulle paure e le fantasie più recondite dell’animo umano, in quel gioco in cui il male scatena sentimenti forti, tra fascino e paura. David Fincher lo aveva capito già nel 1997, con un film che in tal senso è più un’allegoria che un esperimento: The Game.
Se proviamo ad andare più nello specifico, esaminando la sua filmografia, notiamo che questa passione per il cattivo assume delle caratteristiche ancor più inquietanti, lasciandoci definire la figura del villain come, spesso, un essere avvolto nel mistero, dai contorni ignoti, incerti.
Nella maggior parte delle occasioni ce lo lascia solo intravedere, intuire o – vedi Seven – ce lo riserva per il gran finale.
Se togliamo, come probabilmente vorrebbe lo stesso Fincher, Alien 3 dalla sua filmografia notiamo affinità tra molti dei suoi lavori, e parlando del suo primo vero film, Seven (1995), è proprio questo particolare modo di nasconderci il cattivo fino alla resa dei conti a portaci ad un ovvio paragone con Gone Girl, il cui sottotitolo italiano ci ha praticamente rovinato e spoilerato il finale, ma nel quale, pur trattandosi di storie del tutto diverse, abbiamo un epilogo rivelatore scioccante (quantomeno per i protagonisti), proprio come in Seven.
Il John Doe di Kevin Spacey è folle ed ha deliri di onnipotenza, così come la Amy Elliott-Dunne dell’eccezionale Rosamund Pike, sebbene si tratti di storie e situazioni agli antipodi. Certo il personaggio della Pike non è un serial killer, come invece accade per l’antagonista nell’ombra, in Seven.
Sarà la prima di tante volte in cui il concetto di assassino seriale si mostrerà, per poi tornare a più riprese, prepotentemente nel cinema di David Fincher, fino a raggiungere poi il piccolo schermo, nel già menzionato Mindhunter.
Parlando di questa serie TV, avevamo già annotato attinenze col suo precedente cinema, in particolar modo con Zodiac, e non solo dal punto di vista strutturale ma anche da quello stilistico, con quella cupezza e la tavolozza fangosa che richiama le atmosfere noir e degli anni ’70, come nel film con Jake Gyllenhaal e Mark Ruffalo.
La commistione tra la passione per il cattivo e il fascino dell’ignoto raggiunge il picco massimo proprio in questo film, che verte tutto sulla ricerca degli indizi atti a smascherare un serial killer spietato ma implacabile come Zodiac, del quale appunto non conosciamo ancora la vera identità.
È evidentemente un film che Fincher sente molto come suo, nel modo in cui sceglie di separarsi stilisticamente da quelli che erano i suoi precedenti lavori, mettendo da parte il ritmo più serrato di opere come Fight Club, The Game e persino Panic Room, per far posto alla calma e alla riflessione sul male della nostra società, ma anche sulle più grandi paure dell’uomo. Il cambio di registro nel cinema di David Fincher si noterà non tanto nel suo film successivo, forse il più intimo ed emozionale, ovvero Il curioso caso di Benjamin Button, ma soprattutto in The Social Network.
Il “cattivo” qui diventa il protagonista e assume connotati nuovi e ben distanti dalle precedenti pellicole. Stavolta Fincher ce lo sbatte davanti agli occhi, con quell’espressione ambigua e con un look strampalato. Il villain ignoto ha una ennesima nuova definizione, e Fincher gioca con lo spettatore senza mai esporsi del tutto sul ruolo di Mark Zuckerberg. È davvero un cattivo? Possiamo definirlo tale?
The Social Network è una sorta di atto ultimo di manifestazione del villain. In Panic Room, Jodie Foster e la piccola Kristen Stewart erano costrette a chiudersi in una stanza per lasciare i cattivi all’esterno, qui invece è in mezzo a noi, e non lo notiamo neppure. Per qualcuno anzi, come per Eduardo Saverin, sembra quasi un amico.
Del resto “non arrivi a 500 milioni di amici senza farti qualche nemico”. Questa è la scritta che campeggia sulla locandina del film: i nemici sono quindi gli altri, e Zuckerberg in fondo è una vittima troppo intelligente per questo mondo? Il giudizio spetta al singolo spettatore.
Potremmo osare e definire The Social Network come l’evoluzione del cinema fincheriano, che percorre binari paralleli rispetto a Fight Club. Anche lì, per la prima, il cattivo ce lo avevamo di fronte da subito ma non osavamo e non osiamo ancora, affibbiargli quest’etichetta. Tyler Durden d’altronde siamo noi e la nostra società, o meglio quella di vent’anni fa, che ha compiuto passi da gigante sebbene la direzione intrapresa, sembra volerci dire Fincher con The Social Network, non è proprio la migliore.
A quasi 25 anni da Seven, l’ossessione per il cattivo compie quindi il suo corso fino a diventare un vero e proprio studio, in quella lezione di scrittura che prende il nome di Mindhunter. Con questo show, Fincher ci mostra come nasce la figura del villain per eccellenza, il serial killer, ma in certo senso, anche come prende vita il genere crime, quello in cui i cattivi ci sono sempre ed hanno un ruolo nevralgico.
Noi, nel frattempo, restiamo in attesa del prossimo giro pagato da Fincher, curiosi di scoprire chi sarà il cattivo a finire sotto la sua lente clinica.