Concrete Genie cerca di dir qualcosa sul bullismo, ma finisce per poggiarsi su una retorica inefficace e controproducente.
Il ruolo dell’interazione ha sempre avuto un peso determinante per la critica videoludica, perché intorno allo stesso si son costruite le più grandi conquiste e i più violenti conflitti del medium interattivo per eccellenza. Dal valore aggiunto che il gameplay offre alle esperienze narrative all’inutilità di certe sequenze filmiche, il dibattito su “è un gioco è un film?” ha tediato per anni (e continua a farlo) le povere e stanche menti dei videogiocatori e delle videogiocatrici. Eppure, queste riflessioni sono importanti: ci permettono comunque di continuare a divertirci con tutto ciò che vogliamo e che più ci aggrada, senza però abbandonare totalmente il campo della riflessione, considerando sempre con rispetto questo splendido e sfaccettato mezzo di comunicazione che amiamo così tanto. Presomi dunque qualche momento del vostro tempo per mettere furbescamente le mani avanti rispetto alla mia critica, posso finalmente concentrarmi su Concrete Genie e il suo utilizzo dell’interazione per comunicare dei significati ben precisi, dichiarati sia nelle fasi di marketing che all’interno dell‘opera stessa.
Decidendo infatti di raccontare la storia di un giovane ragazzo alle prese con un gruppo di bulli decisamente violenti e ottusi, Pixelous cerca di porre le basi per uno sviluppo metaforico ed emotivo della narrazioni, che si affida al fantastico per dire qualcosa sul reale. Tramite l’incontro con una figura spettrale e apparentemente nostra alleata (dato che prende la forma di una creatura disegnata da Ash, il protagonista), scopriremo che solo noi e il nostro magico e appena forgiato pennello potremo sconfiggere “l’oscurità”, il morbo che attanaglia fisicamente il villaggio natale del nostro eroe. Evitando le ronde dei bulli e colorando le pareti della città, cercando di riportare il bello nei cupi e tetri viali d Denska, potremo finalmente far risplendere il villaggio a cui Ash è così tanto legato. Purtroppo, come sempre, le cose non vanno come previsto, e dovremo sconfiggere un nuovo male, più tenace e violento.
Se nella componente del racconto più tradizionale Concrete Genie si poggia su una classicissima struttura in tre atti, la progressione ludica della storia si divide invece in due blocchi principali, caratterizzati da un uso quasi opposto delle meccaniche proposte dall’opera. Nelle prime due\tre ore del gioco seguiremo quasi pedissequamente le indicazioni dei genietti nati dalla penna di Ash, che però non saranno totalmente frutto della sua immaginazione (come lascia intuire l’introduzione video, in cui il ragazzo disegna a mano libera vari mostriciattoli e creature fittizie), ma al contrario emergeranno da una serie di blocchi più o meno limitati (e limitanti): corna, gambe, braccia e corpi possono essere combinati per creare figure di una certa varietà, ma senza andar fuori dai canoni più tradizionali.
Ovviamente, tutto ciò è dovuto anche e soprattutto a dei limiti tecnici, all’impossibilità di offrire totale libertà interattiva al giocatore, ma tant’è: il ruolo della pittura creativa, in Concrete Genie, è in realtà quello di una riproposizione scolastica dei disegni predisposti e già inquadrati da parte della “maestra” (in questo caso, Pixelopus), che ben poco hanno a che vedere con la voglia di fuga nell’irreale e nel fantastico di Ash, vessato da bulli e cattivi di turno. Inoltre, dispiace notare come anche in questo caso ci sia stata proposta una campagna marketing ricca di azioni poi impossibili nel gioco, come le cascate disegnate a parete che riempivano laghi i quali, stracolmi, inondavano poi le altre fiancate dei palazzi, in un trionfo di colori in cui i nostri disegni prendevano quasi vita (al di là dei genietti). Sicuramente, data la criticità di certe fasi dello sviluppo, l’assenza di queste meccaniche non rappresenta ovviamente una colpa diretta di qualche cattivone interno allo studio, ma denota una visione iniziale ben distante dal risultato finale, e in un gioco in cui la resa scenica assume questo valore, è un tratto che bisogna sottolineare.
Gli unici momenti di libertà creativa sono relegati alla combinazione di queste parti per la decorazione delle pareti, dove effettivamente potremo dare origine a disegni sempre diversi e ricchissimi di colori, aiutati anche dallo splendido dettagli tecnico delle luci e degli effetti, oltre allo strepitoso contrasto generato dalla brillantezza di quanto descritto con la cupa penombra perenne dei vicoli di Denska. È in quei momenti che Concrete Genie si trasforma in un’esperienza di ribellione giovanile e di riappropriazione degli spazi urbani per raccontare sé stessi: Ash, circondato da chi vuole bullizzarlo, abbandonato involontariamente dalla famiglia occupata dal lavoro e apparentemente solo, ritrova nella finzione della sua creatività motivo di gioia e liberazione, combatte la cupezza del momento con la sua voglia di esprimersi, di affrontare (e qui si concretizza la metafora della luce contro l’oscurità) il mondo e le sue storture. Nel farlo, si affida alle uniche armi a sua disposizione, il pennello e la fantasia.
Sebbene dunque la trama racconti di un ragazzo in condizioni sociali e psicologiche critiche, nonché sostanzialmente poco seguito anche dalla famiglia, le meccaniche ci suggeriscono un’evoluzione emotiva granitica, priva di fratture e incertezze, in cui seguire passo passo quanto detto dalla figura materna\paterna (l’essere spettrale di cui parlavamo prima) ci porterà alla risoluzione di tutti i problemi: bisogna continuare a vivere così per come ci viene detto, e tutto si risolverà, in un modo o nell’altro. Certo, non è il ruolo tradizionale della fiaba quello di spiegare a un giovane quali problematiche, strutture e conseguenze presenti e comporta il dover affrontare situazioni come quella del bullismo, ma proprio per la sua quasi stoica banalità Concrete Genie non riesce mai a dire davvero qualcosa di nuovo e profondo sul tema. Al contempo, non scatena mai le emozioni tipiche dei racconti più semplici ma efficaci, al di là di un comunque apprezzabile patetismo in alcuni spezzoni video.
Infine, a seguito del repentino cambio di toni e meccaniche di metà gioco (con le quali completeremo le restanti 3 ore circa dell’esperienza), anche in Concrete Genie la creatività e la sensibilità emotiva cedono il passo alla forza bruta, dato che il pennello si trasformerà in una vera e propria spada magica, i nemici avranno una barra della vita, i disegni saranno sostituiti dagli incantesimi di fuoco e il Male andrà abbattuto con fulmini e saette. Se da un lato è comprensibile la volontà di sottolineare l’urgenza di una reazione forte e decisa a certi mali, dall’altro sorprende negativamente che anche in un gioco simile l’ago della bilancia tenda verso chi si mostra più capace di picchiare, inseguire, colpire, combattere.
In ogni caso, persino in una lettura che veda la violenza come sfogo necessario di un conflitto così polarizzato, la pochezza dei combattimenti, la loro ripetitività e la banalità di un simile “twist” di certo non mi permettono di considerarlo un atto finale ben gestito. Concrete Genie mi ha dunque accompagnato verso i titoli di coda in modo maldestro e banale, troppo attento a ripetere e riprodurre tradizioni e meccanismi oramai stantii del videogioco, senza rischiare a sufficienza con i canoni del settore. Inoltre, tutto ciò non è servito neanche a raccontarci qualcosa di nuovo, di coraggioso, limitandosi alla riproposizione di un già visto davvero troppo già visto. Rimane però impresso negli occhi quel barlume di gioia giovanile nelle corse lungo i cornicioni decorati da luci fantastiche ma incredibilmente vere e luminose, da mostriciattoli simpaticissimi e colorati. Sperando che, per il prossimo progetto, Pixelopus riparta da lì.