Fatica contro il fandom: la nuova traduzione del Signore degli Anelli
Sapere che il Signore degli Anelli, opera più celebre del Legendarium di J.R.R. Tolkien avrebbe avuto una nuova traduzione, ci ha portati a vivere uno strano miscuglio di emozioni, costringendoci da subito a fare di Ottavio Fatica un osservato speciale. Poi circa un mese fa è stata diffusa la nuova traduzione della poesia dell’Anello. Ed è scoppiata la guerra.
Pochi fandom sono integralisti e attaccati alla tradizione come quello tolkieniano. Inevitabile che quella poesia, così diversa da ciò che abbiamo amato e conosciuto, portasse subito sul piede di guerra i fan. All’epoca noi sospendemmo il nostro giudizio: era prematuro valutare una traduzione solo in base a otto righe. Anche se queste righe erano le più iconiche della tradizione fantasy mondiale. Per molti invece bastarono per esprimere un primo giudizio, memori di un altro adattamento molto poco gradito. Ne è perciò nato un parallelismo tra Fatica e Cannarsi.
Partiamo da un presupposto che potrebbe essere impopolare per molti lettori. Ottavio Fatica non è Gualtiero Cannarsi. Troppo diverse le biografie, l’approccio verso la lingua di traduzione, le competenze. Del tutto diverso il ruolo. Cannarsi è un dialoghista, più o meno apprezzabile. Fatica è un traduttore affermato e rinomato, che negli anni ha prestato servizio con buoni risultati per Adelphi e altre case editrici di spessore.
Come siamo giunti, allora, a questo paragone così poco adatto? Sicuramente Samplicio e Passolungo il Forestale hanno aiutato. Eppure basta questo per condannare l’opera di traduzione svolta da Fatica? Purtroppo no. E sottolineiamo il purtroppo perché se il lavoro svolto sul Signore degli Anelli fosse del tutto negativo, al pari di quello svolto da Cannarsi su molti suoi adattamenti, il nostro compito sarebbe facile!
Stroncare in toto un’opera è sempre la via più breve, più rapida, più seducente. Sì, è una sorta di lato oscuro della critica letteraria. Al contrario, analizzare con cura pro e contro di qualcosa, risulta molto difficile. Ancora una volta la vita non si rivela divisa in bianco e nero. Anzi, in luce e tenebre, per usare una tematica tanto cara al Professore. La traduzione realizzata da Fatica mostra alcune criticità, specie nella nomenclatura. Ma per il resto? Cosa dobbiamo pensare dei dialoghi, delle descrizioni, della traduzione del testo in generale? Ecco che le cose si fanno difficili.
In primo luogo perché l’opera non è completa: al momento attuale è uscita solo la Compagnia dell’Anello, perciò Bompiani potrebbe ancora correggere il tiro. In secondo luogo perché quanto compiuto da Ottavio Fatica con la sua traduzione del Signore degli Anelli potrebbe essere visto come un tributo al Professore di Oxford. Ma, per capirlo, dobbiamo fare un passo indietro. Tornare al 1967. E cercare, almeno per un po’, di non pensare a Samplicio.
Le radici profonde non gelano
Fu proprio nel 1967 che comparve la primissima edizione del Signore degli Anelli in Italia. Contrariamente a quello che molti pensano non fu Rusconi, per anni proprietaria dei diritti dell’opera, la prima a diffondere l’opera nel Belpaese.
Fu la Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini, la quale pubblicò la traduzione realizzata da una ragazza di appena diciassette anni, Vittoria Alliata di Villafranca. “Vicky”, contrariamente a quello che la sua giovane età potrebbe far pensare, lavorò con dedizione e, secondo la tradizione, ottenne un’approvazione dello stesso Tolkien. Sarebbe impossibile non lodarla per questo.
Noi italiani siamo portati a pensare che il linguaggio estremamente aulico presente nel Signore degli Anelli, derivi direttamente dall’opera del Professore di Oxford. Al contrario, per quanto elevato, il linguaggio del Signore degli Anelli nella sua versione originale si rivela ancora oggi efficace, in grado di raggiungere persone di diversa cultura. I vantaggi di essere un linguista prestato alla letteratura sono anche questi: saper unire il bello al funzionale.
Ma non solo: Tolkien, come solo un vero maestro della lingua sapeva fare, riusciva a usare diversi registri verbali, dare spazio a parlate diverse e consentire così di dare maggiore realismo alla sua Arda. Leggere il Signore degli Anelli nella versione originale è una sinfonia, un tributo alla lingua inglese. Una delicatezza che fatica a trovare spazio in qualsiasi tipo di traduzione, quella presente nel Signore degli Anelli. E la traduzione in italiano non fece eccezione. Qualcosa, nella traduzione, si perde sempre, indipendentemente da chi adatta il testo.
Perché allora andare a toccare un’opera di per sé vicina alla perfezione e cambiarne il tono della traduzione? La risposta è semplice: mercato. Nell’Italia del 1967 nessuno aveva idea di cosa diavolo fosse il fantasy. Anzi, si potrebbe dire che nel nostro paese la categoria sia nata proprio col Signore degli Anelli, prima di trovare una sua dignità negli anni ’70.
Alliata si trovò così a dover fare una scelta. “Snaturare” in parte l’opera amata per permetterne una diffusione anche in Italia. E, per il mercato italiano, decise di rendere il romanzo un testo di epica. Purtroppo l’edizione della Astrolabio, limitata alla sola Compagnia dell’Anello, si rivelò di scarso successo, non riuscendo a raggiungere la diffusione sperata. A questo contribuirono anche un paio di recensioni critiche verso la traduzione dell’Alliata, come quella apparsa sul Corriere della Sera.
Successivamente i diritti dell’opera furono rilevati dalla Rusconi e toccò a Quirino Principe ritoccare la traduzione dell’Alliata. In primo luogo furono modificate le poesie e si pensò di curare meglio la nomenclatura. Per esempio fu sostituito il termine “gnomi” con il più corretto “elfi“, anche se nella prima edizione l’errore venne mantenuto per un disguido avvenuto nella correzione delle bozze.
Sarà questa la versione che avrà vita più lunga, seppure con qualche rimaneggiamento successivo, rimanendo la stessa fino ai primi anni 2000, quando il revival dell’opera dovuto alla trilogia di Peter Jackson convincerà Bompiani a ristampare una parte dell’epopea di Arda, successivamente coadiuvata da un’operazione dal basso, con un consistente numero di appassionati che collaborarono per realizzare una versione digitale dell’opera da donare alla casa editrice.
Questa è forse la versione attualmente più conosciuta. Quella di Grampasso, quella che per un piccolo errore vedeva ancora un “Mezzognomo” come soprannome di Elrond. Ed è anche la versione che, dal punto di vista personale, ci ha fatto conoscere e amare l’opera di John Ronald Reuel Tolkien.
Era davvero necessaria una nuova traduzione del Signore degli Anelli?
Ciò che tuttavia dovrebbe emergere dal racconto appena fatto è questo: il Signore degli Anelli venne tradotto dall’inglese una sola volta e, successivamente, rimaneggiato nella versione italiana nel tentativo di renderlo più vicino all’originale.
Ma un problema di fondo restava: lo stile deciso dall’Alliata per aiutare la diffusione dell’opera sul mercato italiano era ancora lì. E, per molti lettori, questo rappresentava uno scoglio insormontabile. Ma non solo: era anche stato perso qualcosa nella traduzione. La stessa cosa che nell’originale inglese aveva fatto brillare di luce propria l’opera del Professore.
Se si legge The Lord of the Rings nella lingua madre arrivando dall’italiano ci si trova di fronte a una sensazione di spaesamento. Qualcosa viene ritrovato in questa versione, una scintilla di meraviglioso che permette ai lettori di apprezzare davvero il genio di Tolkien. La sua abilità nel rendere tutte le sfumature della sua lingua, un gioco di chiaroscuri che prosegue pagina dopo pagina. E che la traduzione italiana non era riuscita a rendere del tutto. L’unico modo di capire al meglio tutto ciò è leggere in inglese il Signore degli Anelli.
Una nuova opera di traduzione del Signore degli Anelli si rendeva perciò necessaria. Bisognava cercare di ritrovare ciò che in principio non era stato possibile trasmettere. Quella scintilla di cui parlavamo prima, sacrificata sull’altare delle ferree leggi del mercato editoriale. E, al tempo stesso, togliere quella patina epica che nella prima versione era stata “potenziata” dalla traduzione dell’Alliata.
Ecco quindi che il compito impopolare di ritradurre il Signore degli Anelli viene affidato a Ottavio Fatica. Un professionista affermato, di cui in passato era stato più volte lodato l’operato, posto forse davanti alla più difficile delle sfide, in collaborazione con l’Associazione Italiana Studi Tolkieniani.
E Fatica, dal punto di vista dall’aderenza all’originale, ha compiuto ciò che voleva, cioè tentare di riportare tutto a un registro più simile a quello di Tolkien. Nella sua opera è riuscito in parte a trasmettere in italiano la varietà di linguaggio presente nella versione in lingua inglese. Rispetto all’Alliata è stato forse meno abile nell’adattare alcuni modi di dire, ma la cosa potrebbe spiegarsi con la sua volontà di rimanere quanto più vicino al testo originale.
Un esempio concreto del suo lavoro si trova nei dialoghi dei personaggi. Frodo, cresciuto con uno zio poeta, parla in maniera diversa da Sam, il cui padre è un contadino, ed entrambi hanno un modo di parlare ben distante da Aragorn e Gandalf. Queste sottigliezze linguistiche non erano sempre apprezzabili nella traduzione dell’Alliata rivista da Principe. Non che il tono aulico sia scomparso. Esso rimane dove lo aveva previsto Tolkien, nei discorsi di personaggi di elevata estrazione o quando il momento richiede il necessario pathos. E non sempre la cosa si rivela positiva per il lettore. Si parla di un ritorno alle origini, e le origini sono il 1954.
Tutto bene quindi? Ovviamente no. Una traduzione porta sempre con sé luci e ombre. E una nota dolente c’è, ed è riservata alla nomenclatura. Una nota dolente più vasta di quanto si potrebbe pensare. Enorme, potremmo dire.
Passolungo il Forestale ritorna a Valforra
Lo spaesamento vissuto nel leggere la poesia dell’Anello rilasciata il mese scorso torna con prepotenza quando si legge la nomenclatura scelta da Fatica. Tralasciando la nostra personale predilezione per le poesie curate da Quirino Principe (il quale, è bene ricordarlo, aveva una formazione musicale, ed era stato maggiormente abile nel rendere le canzoni di Tolkien in italiano), è quasi impossibile lodare la nomenclatura scelta. Anche quando questa cerca di seguire le indicazioni di Tolkien, il quale suggerì alcune indicazioni per l’adattamento dei nomi di luoghi, oggetti e personaggi, non riesce a convincere.
Partiamo dal presupposto che il problema è anche di noi lettori. Siamo cresciuti con Grampasso, Samvise, Gran Burrone e Merry Brandibuck. Li abbiamo ascoltati nei film di Jackson, nei videogiochi della saga, nei manuali di gioco di ruolo. Li abbiamo amati. Per noi sarà quasi impossibile dimenticarli. Quindi senza dubbio una parte del problema, di fronte a Passolungo, a Samplicio, Valforra e Brandaino è nostra. Ma solo una parte.
La scelta di non mantenere i nomi utilizzati nella traduzione più nota può essere comprensibile, per quanto dolorosa. Quella di tradurre ex novo tali nomi e riadattarli molto meno. Non si poteva scegliere di utilizzare i nomi così come li aveva scritti Tolkien? Certo, non era un’opzione gradita al Professore, ma vista la volontà di essere più aderenti all’originale nessuno avrebbe protestato. Ormai l’Italia è aperta a contaminazioni linguistiche, termini della lingua inglese vengono usati nella quotidianità. Quindi difficilmente trovarsi di fronte al termine Ranger al posto di Ramingo avrebbe creato dei problemi ai lettori italiani. E, se anche qualcuno avesse voluto criticare Samwise, quale autorità avrebbe mai avuto di fronte alla scelta dello stesso Tolkien?
E questo è un concetto che si potrebbe estendere non solo al Signore degli Anelli, ma anche a molte altre opere tradotte in italiano. Dubitiamo che i lettori di Harry Potter abbiano dimenticato Tassofrasso. Superare la necessità di tradurre e adattare i nomi di luoghi e personaggi, specie nel fantasy, sarebbe un passo importante per l’editoria del Belpaese.
Ci troviamo così di fronte a un problema non indifferente. Il rigetto totale della nuova traduzione sulla base dei nuovi nomi da parte di una consistente parte dei lettori. Anche con quanto di buono essa poteva contenere.
Ed è un peccato che non si possa andare oltre questo. In primo luogo perché il dibattito si polarizzerà non sulla traduzione in sé, ma sui nomi scelti. E poi perché il lavoro svolto da Fatica nella riscoperta del linguaggio tolkieniano all’interno del Signore degli Anelli, per quanto possa essere controverso, ha anche del buono. Ma quel Forestale resterà un muro, uno spartiacque linguistico che poteva essere aggirato in maniera molto semplice. Qualcosa che, ancora una volta, renderà il Signore degli Anelli un’opera per pochi. Un sacrificio, come fu quello dell’Alliata, ma che questa volta ci risulta meno comprensibile.