Il cinema del regista polacco Roman Polański, dalla trilogia dell’appartamento alla sua ultima opera L’ufficiale e la spia
Le ossessioni come più elevata forma di eleganza. È nella poetica di Roman Polański che si coglie l’intricata sintonia tra le idiosincrasie di una cinema che non ha mai trattato del bello, ma che ha reso l’indecenza, la paura, la paranoia e l’insistente senso di ostilità di un mondo che vuole soffocarci nella più raffinata delle rappresentazioni visive.
La mise en scène della filmografia del regista polacco è l’esatto esito dell’incontro di sinergie discordanti, che nell’incontrarsi sotto il medesimo sguardo calcolatore, danno opportunità all’indicibile e al macabro di prendere forma con squisitezza, di rivelarsi estri stilistici che, da turbe incastonate e continuamente percosse, divengono vezzi di bellezza lì proprio dove sarebbe impossibile trovarne.
Tra thriller e orrore, gli inizi del cineasta
Ne è chiara dichiarazione l’inizio della sua carriera, dove Il coltello nell’acqua ne segna l’apertura al pubblico e alla critica mondiale, conquistando un posto durante l’annuale Mostra del Cinema di Venezia e portando la Polonia per la prima volta alle candidature degli onorati Premi Oscar.
Ma è nel 1965, alla sua opera seconda, che Roman Polański comincerà una trilogia non lineare – per tempistiche e progetti d’uscita -, che ne delinea le prime caratteristiche come autore della mania. Sono quattro le mura che, metaforiche o tangibili, inseguono il cineasta per tutta una vita.
Pareti che rinchiudono dentro case, prigioni della mente che si riflettono in gabbie reali, tanto da intrappolare i protagonisti, che comunicano con il di fuori soltanto grazie alla macchina da presa del regista.
La trilogia dell’appartamento di Roman Polański
È nelle trilogia dell’appartamento che Roman Polański racchiude l’eterna voglia di riprendere e scarnificare le perversioni dell’umano e dell’ultra-umano, della verità e della finzione creata da noi stessi, della sanità di una coscienza che viene manipolata e modificata dalle fissazioni.
È con Repulsion e la divina presenza di Catherine Deneuve che l’autore incastra protagonista e spettatori nelle allucinazioni di una casa in cui è la quotidianità a nascondere i tormenti, dove sono le paranoie a nascondersi sotto al letto e a fuoriuscire come mani predatorie lungo le pareti di un corridoio buio.
La ritrosia della protagonista Carole e la sua condizione di androfobia perenne vengono sottolineate da un’abitazione che diventa amplificazione di una sindrome interna al personaggio e alla pellicola.
L’inadeguatezza si espande come uno spettacolo di luci che invade l’intera casa, costringendo la protagonista Deneuve a confrontarsi con quelle ombre che attraversano tramezzi e porte, e che alloggiano conseguentemente anche dentro di lei.
Il seme del Diavolo che sconvolse il 1968
Se il galante utilizzo della regia non sminuisce, comunque, il fenomenico rapporto con l’ossessione perseguita, con Polański l’horror eleva il proprio impegno nello sgomentare gli animi, scegliendo di atterrirli piuttosto che di allarmarli soltanto, facendone vivere il terrore come possibilità più vicina alla situazione umana.
È per questo che, nel 1968, il Diavolo alberga esattamente nello stesso palazzo della protagonista Mia Farrow in Rosemary’s Baby, che fidandosi della presunta innocenza dei suoi anziani vicini, ne rimane imbrogliata, violata.
Inseminata da Mefistofele e costretta a portare nel proprio grembo il frutto del male, nel film che sconvolse il pubblico all’arrivo degli anni Settanta e che, come per Repulsion, fa della casa, dei piani di scale, delle stanze ingombrate dagli ospiti indesiderati, il palcoscenico del disgusto e dell’incubo.
Terzo e definitivo capitolo: L’inquilino del terzo piano
Se è nel 1974 che l’artista polacco, dopo dodici anni dal principio della sua carriera, realizza il suo capolavoro, scegliendo però di tramutarlo nella nuova versione del classico noir americano, con quel Chinatown che è insieme storia del cinema e rifondazione di un genere stesso, è due anni più tardi che il regista conclude la sua trilogia, con un il titolo che coinvolge le manie portate all’estremo dei suoi due predecessori.
L’inquilino del terzo piano, su testo originale di Roland Topor, è esotismo, loop temporale, ripetizione catastrofica nonché mascheramento della propria stessa realtà. È la corruzione di una città e, soprattutto, di un appartamento le cui vibrazioni sembrano riportare addirittura indietro nel tempo, costringendo a rubare altre identità e a fuggire da quel luogo solamente tentando la morte.
L’opera è il culmine di un vaneggiamento di cui Roman Polański si fa protagonista in prima persona, che insegue il personaggio di Trelkowski e il suo crescente delirio all’interno della storia.
Tra frustrazione e ansia esistenziale, l’individuo diventa parte di superstizioni, di scambi di persona, di un accumulo trainante che si consuma, infine, tutto nel piccolo appartamento di quella scala del terzo piano.
La claustrofobia espansa nel cinema di Roman Polański
La claustrofobia, che inquadra i personaggi del cinema di Polański e li incornicia più di quanto l’essere umano possa tollerare, si fa stato costante non solo nella trilogia dell’appartamento, ma di una carriera che ha vissuto, sofferto e cercato di aggirare ogni volta in maniera diversa l’oppressione proposta dal cineasta europeo.
Perché è l’angustia del mare aperto nel già citato Il coltello nell’acqua ad opprimere spettatore e protagonisti. È l’aria aperta del lavoro nei campi di prigionia de Il pianista – con Oscar alla regia nel 2003 – e il continuo nascondersi in casupole e tuguri del personaggio Władysław Szpilman.
È la struttura aperta di un teatro chiuso al pubblico, ma sovraccaricato da una confusione sessuale come quella di Venere in pelliccia. È una pièce teatrale di soli quattro personaggi come Carnage, costretti, ancora una volta, in una casa, dove le nevrosi si surriscalderanno celermente, mentre i personaggi tenteranno di confrontarsi.
Roman Polański e l’ultimo film: L’ufficiale e la spia
E, a più di cinquant’anni di lavoro nel mondo del cinema, Roman Polański continua con classe a inquadrare i tormenti della società. L’ufficiale e la spia, che di “ossessivo” ha avuto il dibattito sulla divisione o meno dall’autore dalla sua opera, avrà anche una messinscena magniloquente, che apre proprio la sua narrazione con la vista a perdita d’occhio sul corpo militare della Francia del 1985, ma quella vasta distesa di persone non fa che assoggettare lo status di accusato della figura di Alfred Dreyfus.
Così la claustrofobia e la fissazione ritornano anche nel Gran Premio della Giuria alla 76esima edizione della Mostra di Venezia. La prima nell’opinione pubblica sull’onesto eppure accusato Dreyfus, che incombe dunque sotto l’intransigenza politica e religiosa del corpo militare.
La seconda nel tenente colonnello Marie-Georges Picquart di Jean Dujardin, che nonostante la risolutezza della precisa recitazione, lascia trapelare il trasporto per la rivelazione definitiva e veritiera del caso che sconvolse gli anni a cavallo del Novecento.
Una dualità, la signorile capacità registica di Roman Polański e i suoi demoni da dover analizzare e sviscerare, che l’hanno reso e lo manterranno un punto fermo nella storia di questo mestiere, pur dovendo armeggiare lui stesso i personali disagi che da sempre ha dovuto affrontare e che si ripresentano periodicamente, sotto inquietanti e inspiegabili forme.