L’arrivo di Shenmue 3 mette il punto a un’attesa durata fin troppo, e lo fa con a modo suo, o meglio al modo di Yu Suzuki
Shenmue 3 è un caso isolato. Probabilmente nessun altro titolo, nessun altro franchise nella storia del videogioco, ha mai avuto il percorso dell’epopea di Yu Suzuki. Nessun altro gioco ha mai suscitato le reazioni che abbiamo visto quando, all’E3 di qualche anno fa, la musica è partita mentre un petalo di ciliegio cadeva dall’alto dello schermo.
Questo perché si son dovuti aspettare diciotto anni prima di vedere un sequel, e perché la particolare condizione dell’autore e dei detentori dei diritti – Yu Suzuki era fuori dalle scene e SEGA sembrava tutto fuorché intenzionata a fare questo passo – non prometteva assolutamente nulla di positivo.
Shenmue era una serie che, quando uscì, era l’assoluto vertice tecnologico del medium. Era una serie che mischiava una narrativa pazzesca, un tratteggio e una definizione dei personaggi secondari mai visto prima in un adventure, un sistema di combattimento preso da Virtua Fighter e un’esplorazione ad ampio respiro che restituiva la sensazione chiara di essere dentro un mondo vivente e reale.
Alcuni di questi aspetti oggi possono sembrare scontati, altri invece continuano ad essere mai replicati. Gli NPC con routine di movimento dettate dagli orari, che abitano in case specifiche dalle quali escono a una certa ora e nelle quali rientrano la sera, dove è possibile trovarli bussandogli, sono ancora una novità.
L’avventura di Ryo Hazuki poi è di quelle ingenue, semplici, eppure in grado di colpire al cuore. È una caratteristica ancora marcata in Shenmue 3, che si porta dietro tutti quegli aspetti una volta rivoluzionari o quantomeno al passo coi tempi e oggi vintage, diremmo se volessimo essere gentili, o anacronistici, se volessimo essere più duri.
L’ingenuità della scrittura e della regia è evidente e travalica i dialoghi scritti spesso male data la ripetizione di linee di testo talvolta mal abbinate per aumentare la varietà di scambi di battute, va oltre queste questioni che potremmo definire tecniche. L’ingenuità è un’altra cosa: è l’avere l’eroe senza macchia, puro di cuore, tagliato con l’accetta e privo di sfaccettature.
Non in senso negativo, per quanto possa sembrare paradossale. Il paradosso e l’ingenuità sono estendibili a tutti i personaggi dell’ultima opera di Suzuki, che appunto sembrano uscire da un gioco di vent’anni fa – e di fatto lo fanno.
Shenmue 3 inizia perfettamente dove finisce il secondo, e dal secondo non è cambiato niente se non gli effetti di illuminazione e la conta poligonale dei modelli dei personaggi. È lo stesso gioco, o per meglio dire è il perfetto nuovo capitolo di quella che dobbiamo considerare come un’opera unica a prescindere dagli uno, due o tre dopo la parola Shenmue. I menu funzionano allo stesso modo, si interagisce nello stesso modo con il mondo e con gli altri personaggi, si sottostà agli stessi ritmi di gioco.
Non è chiaro se Suzuki sia stato in una grotta negli ultimi anni, o se volutamente il gioco sia terribilmente anacronistico. Non è forse neanche importante. Mettendo da parte la retorica del nuovo episodio fatto per i fan in barba al mercato, si può vedere nel lavoro di Suzuki la volontà di rimanere ancorato a quella che è la sua visione dell’avventura di Ryo.
Il gioco era originariamente separato in diversi capitoli, che avrebbero dovuto trovare compimento in quattro o cinque videogiochi. È così tutt’ora, nonostante il buonsenso vorrebbe che una volta che si è riusciti a portare a casa la possibilità di fare il terzo dopo così tanti anni si cerchi di chiudere il cerchio sacrificando qualcosa.
Ma no, Shenmue 3 è quello che Suzuki voleva fare all’inizio, una parte di una storia che non è ancora finita e che non può assolutamente essere apprezzata senza giocare i primi due. Neanche il riassunto serve a niente, se non a ripassare.
Seguendo questo solco Shenmue 3 replica le meccaniche che vedemmo due decadi fa, senza modernizzare niente. Al centro della storia c’è la crescita, raccontata attraverso la ripetizione ad nauseam delle stesse azioni. Le arti marziali hanno un posto importante in Shenmue, e probabilmente anche nel cuore dell’autore, e le arti marziali si imparano ripetendo più e più volte gli stessi movimenti. Così in Shenmue 3 bisognerà allenarsi per sconfiggere i nemici più forti, ma l’allenamento non si fa in combattimento, non è un JRPG.
L’allenamento si svolge in palestra, facendo sparring contro altri artisti marziali o in solitaria con dei manichini, e l’allenamento prevede la ripetizione continua degli stessi movimenti e delle stesse azioni o l’utilizzo reiterato della stessa combinazione di tasti per imparare una mossa nuova. Noi, i giocatori, e Ryo, parallelamente.
La ripetizione, e la ricerca dell’equilibrio e del ritmo della vita in questa, è così uno dei perni del gameplay e del racconto di Shenmue 3, e porta con se un importante discorso filosofico e di crescita. Ryo non parte a cannone per spaccare tutto e vendicare il padre. Il suo viaggio è metodico, è un viaggio di crescita, non è una corsa violenta verso l’obiettivo ma un graduale acclimatamento al mondo che lo circonda, un continuo imparare e migliorarsi. L’obiettivo ultimo è come l’utopia che si allontana ad ogni passo mentre Ryo non si affanna per andargli dietro, ma segue il cammino consapevolmente.
Ingenuo, forse, ma contemporaneamente estremamente poetico proprio perché fuori dal mondo e dalle sue regole a cui siamo abituati.
C’è un che di profondo che si prova giocando a Shenmue 3. Si realizza come serva un certo tipo di predisposizione mentale per avanzare nell’avventura, e poi si capisce come la stessa predisposizione serva anche nella vita reale. Si smette di pensare che il denaro serve per ottenere l’ultimo oggetto supercostoso, e si inizia a pensare che quei soldi possono essere spesi per acquistare del cibo che sarà utile ad avanzare nell’avventura. Ci si rompe le palle a lavorare in continuazione, ma lo si fa per essere pronti al futuro. Non è divertente allenarsi allo sfinimento, eppure è necessario per migliorare il proprio corpo e la propria salute.
Si arriva così a un certo punto in cui si entra nel ritmo dettato dal gioco e dalla sua realtà, ci si organizza la giornata in modo funzionale per raggiungere i propri obiettivi, qualsiasi essi siano, che coincidano o meno con l’avanzamento nella storyline. L’allenarsi non diventa più noioso, ma un giusto passo verso una consapevolezza specifica: non tutto nella vita è divertimento, e così in Shenmue 3 non tutto è divertimento. Ci sono altre cose, necessarie, che bisogna imparare ad accettare.
Questo significa che, dopo un po’ di ore passate a inveire contro l’intera struttura di gioco, troverete il vostro ritmo, vi rilasserete e prenderete Shenmue 3 come deve essere preso: con estrema calma, rilassandosi e abbandonandosi alle sue atmosfere, siano esse bucoliche o di una piccola cittadina portuale.
A questo punto sarete affezionati ai personaggi e alle loro terribili espressioni facciali, al loro doppiaggio decisamente sotto lo standard e al loro carattere estremamente stereotipato.
Tutto tornerà a posto, come se steste giocando seduti per terra di fronte a un CRT collegato a un Dreamcast con vostra nonna che vi domanda cosa volete per merenda mentre il calendario segna novembre 1998.
Shenmue 3 ricrea un’atmosfera d’altri tempi prima di tutto nel giocatore, e lo fa anche essendo un gioco assolutamente fuori dal tempo, con tutte le magagne che questo comporta. Ma questo a un certo punto smette di essere importante.
La magia di Suzuki è nel riuscire a mantenere nel fruitore la sospensione dell’incredulità nonostante la miriade di elementi che oggettivamente non funzionano e quindi dovrebbero romperla.
Oppure il gioco potrebbe annoiarvi terribilmente, e nessuno vi giudicherà per questo.