Il nuovo DOOM mantiene fede alla filosofia del capitolo precedente, ma con alcune aggiunte dal forte impatto ludico: ecco il nostro hands-on
Il DOOM del 2016, quello del nuovo corso ID Software, ha rappresentato per gli FPS ciò che Bloodborne è stato per gli action. Infatti, fino al recente rilancio della serie da parte di Bethesda il mondo degli sparatutto contemporanei era stretto in una morsa che vedeva da un lato la scuola Bungie (uno scudo ricaricabile che ti spinge ad attaccare fino al suo esaurimento), e dall’altro quella “classica” del recupero automatico della vita dopo un breve momento in “sicurezza”.
Ribaltando completamente il rapporto tra nemico e copertura, ID Software ha invece trasformato i demoni del suo DOOM in grosse, putride e sanguinolente sacche di munizioni, armature e risorse, rendendo proprio il nemico più mortale del livello l’obiettivo principale del giocatore, e innescando quindi un rapporto tra ricompensa e difficoltà sempre estremo ma al contempo sempre remunerativo. Mai nascondersi, mai arretrare, mai indietreggiare: sono questi i mantra assoluti del nuovo corso di DOOM.
Dopo aver giocato le prime tre ore del nuovo capitolo, sembra che questa filosofia rimanga ancora il cuore pulsante dell’approccio di design dello studio texano, che ha però aggiunto una quantità notevole di novità: alcune perfettamente in linea con l’obiettivo, altre che sembrano invece prendere una strada diversa.
In primo luogo, la presenza di una sceneggiatura più insistente, presente e diffusa (non solo tramite cinematiche ma anche audio e oggetti nell’hub centrale) cozza con un gameplay splendidamente spensierato e su di giri, e con un level design sensatamente strafottente della credibilità e del realismo, palesemente pensato per adattarsi a urgenze ludiche che vengono ampiamente soddisfatte da scelte di design che affronterò più avanti.
Se da un lato può essere sicuramente interessante scoprire di più sul contesto narrativo di una saga decennale, dall’altro fa quasi sorridere vedere tanta “serietà” nelle cinematiche e nei personaggi comprimari che appaiono nelle prime ore di gioco, soprattutto tenendo conto del fatto che il primo capitolo aveva costruito momento memorabili proprio puntando sul rifiuto quasi religioso del Doom Guy (oggi Doom Slayer) di sovraesposizione narrativa e complessità della sceneggiatura.
In ogni caso, le reazioni del nostro “loquace” assassino di demoni sono sempre clamorosamente ironiche ed estreme (c’è una scena in cui risponde solo ricaricando il fucile a pompa), e pertanto le preoccupazioni su questo fronte non sono poi così spesse.
Al contrario, le maggiori perplessità riguardano invece il quantitativo forse eccessivo di perk, statistiche, potenziamenti e modalità di fuoco. Appare evidente che l’obiettivo principale degli sviluppatori sia quello di dare più opportunità al giocatore per spettacolarizzare le sue sessioni di gioco, ma proprio per questo un focus maggiore su meno oggetti ma tutti disponibili sin dall’inizio permettere a chi gioca di padroneggiare questi strumenti prima, rendendo tutte le sessioni del gioco particolarmente esaltanti, e non rendendo il tutto un’attesa di qualcosa che verrà.
Ovvio, parliamo di una progressione già presente in tantissimi altri titoli, ma proprio perché la visione di ID per questo capitolo è quella di un gioco che “non vuole aiutarci” mi sarei aspettato più libertà per il giocatore, in virtù di quel rapporto rischio\ricompensa di cui parlavo all’inizio.
La sensazione complessiva è che da questo punto di vista la grandezza descrittaci dai membri di Bethesda sia più quantitativa che qualitativa, contando il tempo che bisognerà dedicare per sbloccare abilità e oggetti con cui alla fine poter giocare.
Al di là della mole apparentemente eccessiva di modifiche e potenziamenti, l’adrenalinica razionalità di DOOM emerge sin dalle prime ore di gioco, e ha saputo mantenere ritmi instancabili per tutta la durata del provato.
Il bilanciamento tra la strategia e l’azione rimane infatti perfetto, come nel capitolo precedente: al contrario di quanto avviene nella quasi totalità degli FPS, dove iniziamo ogni scontro con l’obiettivo di ripulire la mappa dai cattivi, in DOOM Eternal scannerizziamo istintivamente l’arena, per programmare un combattimento violento e immediato ma al contempo squisitamente razionale.
Prima il nemico a distanza schivando i colpi degli avversari più piccoli; poi un paio di colpi corpo a corpo per recuperare vita; poi una brutale carneficina da vicino per eliminare quei due bestioni pericolosi; si passa poi all’ultimo, grande avversario; infine si ripulisce la zona dagli zombie rimasti, ricchi di risorse e salute da immagazzinare.
Tutto ciò avviene con incredibile fluidità, ed esalta sia l’abilità del giocatore negli FPS che la sua gestione strategica delle risorse: non ci si copre dietro un muro in attesa che la salute si ripristini, ma si carica in virtù di uno stile omicida sempre su di giri ma al contempo deliziosamente pensato.
Inoltre, esattamente come nel primo capitolo, il contesto narrativo del gioco e questo peculiare stile di combattimento rendono totalmente inutile approfondire il ruolo dell’intelligenza artificiale, dato che sarà il giocatore stesso a braccare ogni tipo di risorsa che troverà a tiro.
Un ruolo decisamente più rilevante rispetto al passato giocano anche i collezionabili, i segreti, le sessioni platform e gli enigmi ambientali. Quelli vissuti nelle prime tre ore offrono interessanti alternative al ritmo sfrenato delle sparatorie, e sebbene le animazioni e la gestione dei salti non siano quelli tipici di un gioco di questo genere, è comunque intrigante vivere questa rivisitazione della formula.
D’altronde, come detto prima, l’assoluta assurdità dei livelli e il totale e legittimo disinteresse verso strutture credibili o realistiche ha permesso allo studio di costruire dei veri e propri dungeon, da esplorare in lungo e in largo per scoprirne segreti e passaggi nascosti.
Il paradosso è che per molti sembreranno situazioni troppo “diverse” dallo standard di Doom, e ai più esperti capiterà di morire più in queste sessioni che in quelle sparatutto (giocando al terzultimo livello di difficoltà, non sono mai morto nelle sparatorie delle prime tre di gioco, ma sono caduto più volte nel vuoto mentre cercavo di capire dove andare), ma dopo poco tempo si comincia a osservare il mondo di gioco con nuovi occhi, e si iniziano ad apprezzare anche i momenti meno violenti, ma che ricompensano l’esplorazione di un mondo in cui lo studio ha investito molte energie creative.
Le architetture e lo stile richiamano ovviamente quanto già fatto con il capitolo precedente, ma stavolta sembrano abbandonare l’elemento fantascientifico e umanoide per lanciarsi definitivamente e totalmente nel fantasy e nel demoniaco: cori satanici ci accompagnano in cattedrali sorrette da colonne di cadaveri disperati e urlanti, mentre fiamme e ghiacci perenni ammantano di morte l’intero pianeta terrestre, oramai conquistato dalle orde dell’Inferno. E poi ci sono i lupi, tanti lupi, lupi amici delle Sentinelle, e questo è sempre un bene.
In sostanza, sebbene alcune nuove aggiunte sembrino spingere verso una standardizzazione della serie, le prime ore di DOOM Eternal recuperano quanto di buono (eccellente) fatto dal capitolo precedente, dando nuovi livelli, nemici, armi e opportunità al nostro Doom Slayer per deliziarci con sanguinose e brutali carneficine demoniache.
Non ci resta che attendere il 20 marzo per capire quanto tutti questi elementi si bilancino tra loro.