Mythic Quest: Raven’s Banquet è la prima serie televisiva di Ubisoft, e si può certamente dire un prodotto riuscito.
All’E3 del 2019 Ubisoft comunicò di volere entrare nel mercato delle serie TV e presentò il suo primo show in esclusiva per Apple Tv+: Mythic Quest: Raven’s Banquet, una commedia che vede come autore Rob McElhenney, già responsabile di It’s always sunny in Philadelphia, che racconta cosa avviene all’interno di uno studio che ha sviluppato un MMO di successo.
Il racconto è sostanzialmente semplice, dal momento che Mythic Quest: Raven’s Banquet segue la canonica struttura della comedy, con puntate di 20-25 minuti sostanzialmente autoconclusive, a cui si affianca un racconto orizzontale utile a fare da filo conduttore. Lo scopo è, puntata dopo puntata, mettere in luce i diversi aspetti produttivi del videogioco e le diverse problematiche dell’industria che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi anni.
Tra turni di lavoro massacranti, lo strapotere di un’azienda centrale che si scontra con le istanze dei creativi, i problemi di monetizzazione in un gioco che (sembrerebbe) essere free-to-play, il rapporto con gli streamer e le questioni di genere, Mythic Quest tocca questioni importanti ed estremamente attuali, spesso con intelligenza e funzionando benissimo come prodotto comico.
Partiamo dal principio però: Mythic Quest si apre in prossimità del lancio della nuova espansione di Mythic Quest, il già citato MMO, chiamata Raven’s Banquet. Già dalla prima puntata vediamo contrapporsi diverse personalità, tra cui spiccano il direttore creativo del progetto, Ian, in costante conflitto con la lead engineer, Poppy. A cercare di gestire la situazione e gli altri personaggi impiegati nello studio, tra cui un’assistente affascinata dal maschio alpha, uno “squalo” responsabile della monetizzazione, uno scrittore alcolizzato che cinquant’anni prima degli eventi ha vinto il premio Nebula e che si occupa della scrittura del gioco, c’è David Brittlesbee, executive producer con una spiccata incapacità nella gestione del personale.
A pochi giorni dal lancio di Raven’s Banquet Poppy decide di introdurre nel gioco una pala, utile a scavare, mentre Ian raccoglie l’idea della pala ma la vuole trasformare in un’arma. Da una semplice divergenza emergeranno diverse questioni legate allo sviluppo di un videogioco: le scadenze pressanti, il crunch per introdurre una qualsiasi novità rispettando le date di uscita, il rapporto tra creativi e publisher ma anche tra software house e pubblico.
La caratteristica migliore di Mythic Quest è proprio questa: prende un pretesto in ogni puntata per costruirci sopra una riflessione su una questione effettivamente calda e attuale. Si passa dal ruolo delle donne nell’industria, veicolata da una gita di bambine che vorrebbero da grandi fare le sviluppatrici alla sindacalizzazione dei lavoratori che non percepiscono straordinari, o all’ego smisurato di alcune figure di spicco, totalmente staccate dalla realtà.
Insomma, ce n’è per tutti e la serie funziona bene, con personaggi a cui ci si affeziona e un ritmo serratissimo e a una sceneggiatura brillante sempre in grado di far ridere – anche se forse solo ad un pubblico che conosce gli argomenti trattati.
Delle nove puntate ce n’è però una, esattamente al centro, totalmente svincolata dalle altre, con personaggi diversi e un tono che diventa improvvisamente serio. Vengono introdotti due sviluppatori, una coppia, che riescono a realizzare grazie ai finanziamenti di un publisher di Montreal la loro idea di gioco horror, decisamente avveniristica per la metà degli anni ’90, periodo in cui è ambientato l’episodio. Poi entrano in mezzo i soldi, il successo di pubblico e le trasposizioni cinematografiche, fino a che l’idea originale perde identità sequel dopo sequel.
Il discorso è semplice, ma non per questo meno efficace, che rafforza quello che il resto della serie porta avanti. È interessante anche solo il constatare l’esistenza di un prodotto di questo tipo, con queste tematiche, con una produzione importante come questa, congiunta tra Apple e Ubisoft, entrambe leader nell’industria tecnologica.
La malafede potrebbe far pensare a una manovra un po’ paracula, in cui Ubisoft o Apple si schierano, come fa David nella serie, dalla parte dei creativi, tirandosi fuori in qualche modo dall’ondata di critiche che si sta riversando su alcune meccaniche e dinamiche tossiche all’interno degli studi di sviluppo di videogiochi.
Volendo essere ancora più critici, Mythic Quest: Raven’s Banquet parodizza le difficoltà che esistono in uno studio di sviluppo, che invece sono raccontate in modo serio e grave da Playing Hard, un documentario che trovate su Netflix che racconta le difficoltà nello sviluppo di For Honor (che ricordiamo essere un prodotto Ubisoft) dal punto di vista del direttore creativo, Jason VandenBerghe, che ha lasciato poi Ubisoft una volta che la versione base del gioco uscì sugli scaffali per come è stato trattato e per come è stato lentamente messo da parte all’interno del suo stesso progetto. Insomma, non è ovviamente detto che ci sia un collegamento voluto, ma è un collegamento che chiunque farebbe una volta visto il documentario prima e la serie poi.
E l’ultimo appunto su Mythic Quest riguarda proprio For Honor. La serie ha un evidente problema di product placement, che non riguarda le statuine di Assassin’s Creed o i poster di Rayman Raving Rabbids: durante tutta la stagione ci sono intermezzi che mostrano scene di For Honor, e più raramente di Assassin’s Creed, totalmente decontestualizzate se non per il richiamo al setting medioevale dell’MMO che dà il titolo alla serie.
Quello che resta, a prescindere da tutte queste riflessioni, è comunque un prodotto ben confezionato che si prende la briga di raccontare un mondo di cui pochi conoscono il dietro le quinte, così come ha fatto Boris in Italia. Una serie riuscita, con ottimi spunti di riflessione, anche non strettamente relativi a quanto avviene sullo schermo.