Otaku, NEET, freeter… nessuno di loro è utile alla società giapponese
Se c’è una cosa in cui gli occidentali sono particolarmente bravi è appropriarsi di termini stranieri e utilizzarli a sproposito, per significato o pronuncia (quanti italiani rabbrividiscono sentendo un madrelingua inglese pronunciare cibi nostrani?). Ciò è accaduto anche con la parola otaku, ad esempio, da quando anime e manga si sono via via diffusi al di fuori del Giappone.
Oggi tutti gli appassionati, chi più chi meno, la utilizzano per descrivere sé stessi o altri appartenenti alla categoria di amanti dei media giapponesi. Tuttavia, un po’ come il termine nerd una volta, la parola otaku possiede in realtà un’accezione piuttosto negativa in patria e siamo solo noi occidentali ad aver trasformato questo fenomeno in qualcosa di positivo, di cui andare quasi fieri. In Giappone, NEET, hikikomori, otaku o parasite single, non sono considerati utili per la società in cui vivono e dovrebbero dunque vergognarsi. Ma quanti sono e cosa fanno questi individui, quanto è grave la loro situazione?
NEET, freeter, hikikomori… vari fenomeni sociali interconnessi tra loro
In Giappone il percorso di vita che deve seguire un individuo è praticamente già scritto fin dalla nascita. L’importante è frequentare una buona scuola (quasi obbligatoriamente privata e magari che includa addirittura tutto il percorso di studi, dall’asilo all’università) per poi riuscire ad inserirsi nel mondo del lavoro, venendo assunti in un’azienda o prendendo parte ad un’attività di famiglia.
Chi non riesce a diventare parte del ciclo produttivo è fondamentalmente un NEET, un acronimo che sta per Not in Education, Employment or Training. Questa condizione può variare in base all’età (la fascia media va dai 15 ai 34 anni in Giappone) o a seconda della situazione familiare e sociale: alcuni sono viziati dai genitori, altri non hanno completato il percorso di studi che porterebbe a lavori d’ufficio ma allo stesso tempo non vogliono fare lavori pesanti o manuali; altri ancora, invece, faticano ad inserirsi sul posto di lavoro o non lo trovano gratificante, finendo così per licenziarsi e non sviluppare determinate skills per cercare altri lavori.
Per sopravvivere col minimo sindacale, qualcuno di questi NEET diventa al massimo un freeter: in pratica qualcuno che fa lavoretti, specialmente part-time, un po’ ovunque, senza mai ottenere un posto fisso o rimanere troppo a lungo. In questo caso la scelta di essere un freeter può essere abbastanza personale: le proprie ambizioni, ad esempio, non coincidono col modello di lavoro giapponese, oppure alcuni di loro vogliono godersi la vita, scegliendo consapevolmente di non entrare nel meccanismo.
Diventare un freeter comporta soprattutto svantaggi: i lavori part-time non garantiscono un’assicurazione sanitaria e, quando si deciderà di iniziare finalmente una carriera, un freeter avrà maggiori difficoltà man mano che invecchierà poiché le aziende più grandi considerano i nuovi impiegati una sorta di investimento per il futuro. Così, un freeter spesso finisce col pesare sulle spalle dei genitori, divenendo anche un cosiddetto parasite single dedito o al lavoro o, nel caso di un NEET, ad attività da otaku.
La vita di un lavoratore medio giapponese, il cosiddetto salaryman, ruota attorno al lavoro e ai rapporti coi colleghi ma il parasite single diviene tale per pura comodità finanziaria, non avendo un lavoro né un compagno di vita (spesso inoltre è il lavoro stesso ha impedire di potersi trovare fisicamente un partner) oltre a non poter sostenere i costi dell’andare a vivere da solo, tra affitto, caparra, trasloco, eccetera. Allo stesso tempo, però, c’è chi invece lo diventa poiché non sopporta più l’estrema competitività vissuta fin dai tempi della scuola, definita anche jigoku shiken proprio per la grande quantità di esami da svolgere dai quali viene sempre ricavata una graduatoria degli studenti, costantemente valutati per i loro risultati.
Per questa e altre motivazioni legate al mondo del lavoro (ad esempio la crescente instabilità dei contratti e le paghe sempre più basse), il Giappone sta affrontando tutte queste situazioni piuttosto scoraggianti per i giovani, portando, tra le altre cose, ad una crescita sempre più esponenziale di hikikomori. Un fenomeno arrivato anche in Italia e ancora poco approfondito, ma molto più diffuso di quanto si creda: si stima che possano essere circa un milione i giapponesi che decidono di ritirarsi dalla società, chiudendosi in casa, se non addirittura nella propria camera da letto, per isolarsi dal resto del mondo, dedicandosi esclusivamente a videogiochi, anime, manga e altre attività otaku.
Depressione, rifiuto di andare a scuola e perdita delle amicizie sono cause e/o conseguenze di questa condizione che porta poi i soggetti a crescere tra le mura di casa: alcuni casi registrati sono già arrivati ai 40 anni, cosa che creerà non pochi problemi alla società quando i genitori di queste persone, incapaci di scacciarli per amore dei figli o non riuscendo a dare il giusto supporto psicologico (si sono creati piccoli centri di riabilitazione ancora non efficienti), cominceranno a morire. Come si potrà agire nei loro confronti? Come si possono reintegrare persone che non hanno sviluppato doti comunicative e abilità particolari e non hanno parlato con nessun altro per più di venti o trent’anni?
NEET, hikikomori, otaku nei media giapponesi
Gli hikikomori vengono spesso associati quindi ai termini NEET e otaku: dopotutto, quest’ultimo deriva dal termine otaku お宅, che inizialmente era una forma onorifica per indicare la seconda persona singolare, ma che col tempo e l’utilizzo da parte di alcuni addetti ai lavori dell’ambiente fumettistico e dell’animazione è diventato un modo per riferirsi ai fan di qualsiasi argomento, hobby o forma di intrattenimento.
Di conseguenza le due figure spesso si fondono e sono entrate nell’immaginario culturale non solo attraverso fatti di cronaca (come il caso dell’otaku assassino, Tsutomu Miyazaki, di cui abbiamo parlato in un nostro podcast), ma anche in diversi anime e manga che li vedono protagonisti: abbiamo un esempio di otaku con la simpatica Konata di Lucky Star oppure otaku che, curiosamente, sono anche lavoratori in Wotakoi (in arrivo in Italia con Planet Manga), nel quale si esplora appunto la difficoltà degli otaku di trovare l’amore da un punto di vista comico; Arata di RE:Life invece è un classico freeter; Welcome to the NHK è famoso per il suo protagonista, Tatsuhiro Sato, definito sia hikikomori che NEET; lo stesso vale per Natsuki Subaru da Re:Zero o per l’otaku Naofumi Iwatani di The Rising of the Shield Hero.
Da notare, inoltre, come ultimamente siano sempre più rappresentati soprattutto in relazione a mondi fantasy o tratti da videogiochi, a sottolineare quanto vi siano legati come unica forma di intrattenimento consona al loro stile di vita e allo stesso tempo anche la migliore per esprimere le loro capacità e abilità personali, utili in realtà anche nel mondo reale: problem solving, intraprendenza e valori morali sono solo alcune delle qualità che questi personaggi riescono a far trasparire nelle loro avventure.
Anche in letteratura ci sono alcune rappresentazioni di questi fenomeni sociali: in La ragazza del convenience store abbiamo un perfetto esempio di freeter, collegato alla figura della protagonista che, oltretutto, essendo donna, ha ulteriori pressioni sociali quali il matrimonio e la creazione di una famiglia, mentre invece lei lavora da anni in un semplice konbini (visto, solitamente, come un lavoro temporaneo o, appunto, adatto a un freeter).
Cosa andrebbe fatto
Cosa può fare dunque una persona che si trova in una o più di queste categorie? Al momento ben poco. La società giapponese sta cambiando, sì, ma ancora troppo lentamente, senza affrontare in modo diretto le problematiche che la affliggono e continueranno ad affliggerla. Problematiche dovute ad un sistema che funziona solo in parte, non lasciando effettivamente una libera scelta alle generazioni future che dunque si sentono intrappolate e ricorrono, fondamentalmente, alla fuga, rimanendo sole in uno stato patologico oggi riconosciuto ma ancora poco studiato, poiché assimilabile ad altre patologie.
Cambiare una mentalità radicatasi per decenni nelle menti dei cittadini non è cosa semplice. Paradossalmente, potrebbe essere la visione occidentale, meno legata ai significati e più alla sostanza, a cambiare le sorti di NEET, hikikomori, otaku e compagnia. Come dicevamo all’inizio, essere un otaku in occidente non è mai stato realmente sinonimo di disadattato, ma è stato usato come termine per definire sé stessi come semplici appassionati di qualcosa.
Oggi questi sono una grossa fetta della torta che costituisce la community creativa e la loro domanda ha generato un’offerta che va dal merchandise ufficiale alle fanart e doujinshi, cosa che ha portato alla manifestazione di un nuovo Giappone che, purtroppo, ancora fatica a farsi strada nonostante il successo di alcune opere. Questa creatività, unita allo spirito di osservazione e all’ossessione di raccolta d’informazioni tipica degli otaku, non andrebbe sprecata ma sfruttata per cambiare alcuni approcci al mondo lavorativo e sociale.
E questo andrebbe fatto non solo in Giappone ma anche nel resto del mondo, dove il disagio comincia a farsi sentire in maniera altrettanto importante. I rifugi scelti da queste persone potrebbero diventare potenzialmente un’opportunità di crescita, ma la società come la conosciamo andrebbe smantellata e ricostruita su fondamenta più solide e meno deleterie per la mente umana. Altrimenti continuerà ad essere preferibile rifugiarsi nella propria cameretta, lontano dai giudizi altrui.