Uno degli horror asiatici più celebri dei primi anni 2000 riceve l’ennesimo riadattamento con questo The Grudge
Ammetto di essere entrato in sala con qualche scetticismo per questo secondo remake di The Grudge firmato da Nicolas Pesce. L’idea di confrontarmi nuovamente con un immaginario già oltremodo abusato come quello di Ju-On e dei suoi numerosi seguiti, non mi solleticava più di tanto. Tra l’altro, già nel 2004 la saga giapponese di Takashi Shimizu venne portata negli USA con un remake con protagonista Sarah Michelle Gellar.
Il timore principale era quello di rivedere per l’ennesima volta gli stessi cliché dei film precedenti, e già la scena con l’iconica manina che esce dai capelli durante la doccia vista nel trailer era di cattivo auspicio in tal senso.
Fortunatamente, il nuovo adattamento di The Grudge a conti fatti si distanzia più di quanto prevedevo dall’originale, pur non stravolgendone ovviamente l’idea alla base, di per sé non troppo distante da molti altri film del genere. Nonostante sia scongiurato il pericolo di “copia della copia”, qualche altro problema però impedisce al film di rendersi particolarmente memorabile. Ma andiamo con ordine.
The Grudge si collega sin dall’inizio al capitolo originale con un prologo che sembra rivolgersi soprattutto a chi conosce già la storia di Ju-On. Una donna americana abbandona la casa in Giappone dove risiede lo spirito rancoroso del film originale e semplicemente, se lo porta con sé in Pensilvania. Un incipit sbrigativo che come detto, pare presupporre che tutti conoscano i fatti precedenti. Ma poco male visto che si tratta comunque di un soggetto talmente semplice da essere compreso immediatamente a prescindere da questo.
Come detto, il film non si configura semplicemente come l’altra storia di un’altra casa infestata questa volta all’altro capo del mondo, ma tenta di fare qualcosa di più articolato. Diversi anni dopo il ritorno della donna dal Giappone, una coppia di detective lavorano a un caso di omicidio che in qualche modo pare legato all’indirizzo in cui abitava proprio la famiglia di questa. Famiglia che nel frattempo ha fatto una brutta fine in seguito a “misteriose” circostanze. Il film quindi assume connotati investigativi ove, tramite svariati flashback, ripercorriamo i diversi momenti in cui tutte le persone che hanno abitato la casa maledetta negli anni e altre “di passaggio” sono entrate in contatto con l’entità maligna. Il realtà questa struttura da “noir” non funziona granché visto e considerato che noi spettatori sappiamo già quale è la causa di tutto e dove si andrà a parare, ma vedere come i puntini (o meglio, le morti violente) si uniscono tra loro, è abbastanza curioso e “divertente”.
Se vi chiedete se The Grudge vi può spaventare e funziona come horror, diciamo che più che altro, vi fa saltare spesso sulla sedia. Nicolas Pesce si affida molto, forse troppo, all’espediente del jump scare, che vengono inanellati nel film uno dietro l’altro a ritmo piuttosto sostenuto. Funzionano? Abbastanza, grazie ad un buon lavoro di make-up e la fotografia opprimente di Zach Galler (sicuramente la cosa più bella del film). Purtroppo, questi jump scare sono sempre preceduti da scene banali e vengono sempre mozzati sul nascere, probabilmente per non spingere oltremodo sulla violenza esibita. Nonostante qualche momento gore non manchi, The Grudge sembra puntare più sul terrore psicologico, ma mancano le basi per fare questo in modo efficace.
Sembra un film in cui sostanzialmente muore gente a caso che si trasforma talvolta in fantasmi talvolta in corpi posseduti (c’è un po’ di confusione nella messa in scena in questo) che con motivazioni altrettanto casuali continuano a perpetuare questo bagno di sangue. Non c’è un catalizzatore concreto nella sceneggiatura a cui aggrapparsi per far crescere una qualche sorta di reale tensione, salvo forse la magione infestata, che però viene lasciata in disparte per gran parte del film.
Se poi aggiungiamo il fatto che i dialoghi sono scritti in maniera abbastanza pessima e che l’unico personaggio convincente è quello della poliziotta interpretata da Andrea Riseborough (fortunatamente protagonista delle vicende), rimane pochino per cui esaltarsi.
Apprezzabile il tentativo di fare qualcosa di non lineare, di sporcare un po’ l’immaginario di Ju-On e renderlo più grottesco, e di assestare qualche colpo ben piazzato sul piano dei “BUH!” improvvisi, però rimane un film sostanzialmente debole. L’originale di Shimizu, noostante i tempi erano diversi, era comunque un’altra cosa. Scorre via liscio per carità, ma dategli 24 ore e lo avrete cancellato dalla vostra memoria.