Come Final Fantasy VII potrebbe riscrivere la storia della serie una seconda volta
Final Fantasy è uno dei franchise videoludici più celebri al mondo. Vanta una storia di trentatré anni, nel corso della quale si sono succeduti quindici capitoli numerati e innumerevoli spin-off, oltre a una caterva di port e remake, fra cui l’imminente Final Fantasy VII Remake.
Com’è noto, nella main series non esiste continuità: tutti gli episodi sono narrativamente autonomi (ma alcuni hanno ricevuto dei sequel) ed eterogenei sul piano tematico e stilistico. Ciononostante, nel corso degli anni Novanta la serie è stata in grado di acquisire una forte identità, che costituiva allo stesso tempo un marchio di fabbrica e una garanzia in termini di qualità.
Affinità…
Ma in cosa consisteva questa identità? Principalmente in tre diversi aspetti. Il primo, il più superficiale e sicuramente il meno pregnante, è dato dalla presenza di elementi “tralatizi” che tornano più o meno ad ogni capitolo: il cristallo/i, presente/i nella lore di tutti gli episodi con vari ruoli, non sempre di spicco (se vi interessa l’argomento, vi consigliamo un libro); i gil/guil, valuta di tutti i Final Fantasy, Cid e i chocobo (da FFII in poi), i moogle/moguri (da FFIII in poi, salvo alcuni), Biggs & Wedge (in quasi tutti i giochi a partire da FFVI) e così via.
Il secondo è dato dalla tendenziale omogeneità del gameplay: tutti i Final Fantasy numerati sono JRPG classici, ad eccezione dell’undicesimo e del quattordicesimo capitolo, che sono MMORPG; di questi, solo FFXV ha un battle system totalmente in tempo reale, mentre la stragrande maggioranza utilizza l’Active Time Battle od una sua evoluzione. Oltre a questo, buona parte dell’inventario, delle magie (invocazioni incluse) e dei mostri è comune a tutti giochi o quasi.
Ma ciò che tenne tutti incollati allo schermo in quegli anni furono le emozionanti vicende vissute dai carismatici protagonisti, che rendevano ogni nuovo capitolo di Final Fantasy un’epopea indimenticabile. La mia generazione, in particolare, ha vissuto in maniera davvero intensa il trittico su PlayStation, inaugurato dal clamoroso Final Fantasy VII, che definì un nuovo standard per i JRPG story-driven. Poi ognuno aveva la sua idea, il suo capitolo preferito (che spesso era il primo acquistato, con cui si sviluppava un forte legame emotivo) e il personaggio prediletto, ma il presupposto sottinteso di qualsiasi disputa in seno alla fanbase era che comunque tutti i Final Fantasy erano gioconi.
Non che Final Fantasy VII sia stato il primo esponente del genere con una forte componente narrativa.
Dopo l’epoca degli albori, in cui i JRPG hanno definito le loro caratteristiche basilari, all’inizio degli anni Novanta crebbe l’attenzione riposta sulla trama e la sceneggiatura. La serie di Square, in particolare, fece questo balzo nel 1991, con il quarto episodio, dopo il primo timido tentativo di FFII. Già Final Fantasy VI (1994) è narrativamente maestoso, dotato di una trama articolata, un villain carismatico e un nutritissimo cast di eroi (ancor oggi il più ricco della serie), alcuni dei quali dotati anche di un curato background.
Final Fantasy VII fu, invece, il primo a calare il tutto in un contesto poligonale, con tanto di emozionanti sequenze FMV. Immersivo come poco altro, nel 1997. In sostanza, offriva tutto ciò che aveva decretato la grandezza del suo predecessore, ma in una veste all’epoca “avveniristica”, che sarebbe stata grosso modo la stessa dei due giochi successivi, sempre più muscolosi sul piano tecnico.
… e divergenze
Proprio il progresso tecnologico portò, tuttavia, a una prima grande discontinuità nell’ambito della serie, di natura stilistica, data dalle emergenti esigenze di realismo, che avevano già suggestionato Final Fantasy VII: anche se l’opera restava in equilibrio fra lo stile super-deformed delle sequenze esplorative e quello decisamente più realistico dei combattimenti, da quel momento la serie sarebbe stata caratterizzata da una certa propensione al realismo, anche in setting fantasy classici (come in FFXII), con la rilevante eccezione di FFIX.
A proposito di setting, anche in tale ambito FFVII finì con l’accentuare la discontinuità stilistica, nel contesto di un franchise che per i suoi primi cinque capitoli era rimasto ancorato al medieval fantasy. FFVI introdusse l’elemento steampunk, sviluppato poi esponenzialmente dal successore, che innestò a sua volta un inedito elemento futuristico (o quantomeno modernista), destinato a lasciare il segno nella serie (pensiamo, ad esempio, a FFX). Queste nuove tendenze furono incarnate da Final Fantasy: The Spirits Within, il vituperato film del 2001, caratterizzato tanto da un setting futuristico quanto da uno stile realistico.
Anche la seconda grande discontinuità è legata al progresso tecnologico. Lo sviluppo di un videogame era divenuto un processo sempre più complesso e dispendioso, come dimostrò la lunga gestazione di Final Fantasy VII rispetto ai suoi predecessori: dal 1987 al 1994 uscirono sei episodi numerati, mentre il settimo capitolo si fece attendere fino al 1997 e richiese uno staff e un budget enormi. Per mantenere una buona cadenza nelle uscite, Square mise al lavoro su Final Fantasy numerosi team, riuscendo a piazzarne ben quattro fra il 1999 e il 2002:
- Final Fantasy VIII (1999), sviluppato dalla Product Division 1;
- Final Fantasy IX (2000), sviluppato da un team completamente diverso (Square USA), con base alle Hawaii;
- Final Fantasy X (2001), sviluppato anch’esso dalla prima divisione;
- Final Fantasy XI (2002), sviluppato dalla terza divisione;
Il tutto, con lo spin-off Crystal Chronicles (2003) in sviluppo presso il secondo team (autore anche di tutti i successivi Crystal Chronicles) e FFXII in lavorazione presso il quarto team, con uscita prevista nel 2004 (poi i tempi si dilatarono a dismisura a causa dei problemi personali di Matsuno, a capo di quello studio, ma questa è un’altra storia…).
La fusione e l’espansione “selvaggia”
Proprio in quegli anni Square ed Enix cominciarono a discutere della fusione, divenuta realtà nel 2003. Da quel momento (ma anche un po’ prima: se ne parlava già nel 2000) Final Fantasy andò incontro ad un’altra grande trasformazione; solo che questa volta non c’entrava il realismo o lo steampunk, ma il denaro: cominciarono gli anni del milking sfrenato, che non si sono ancora conclusi.
Fino a tutti gli anni Novanta gli spin-off di FF non erano molti: c’erano Final Fantasy Adventure (1991), che peraltro quasi subito divenne una serie del tutto autonoma (e che serie! Parliamo di Mana, NdR); Final Fantasy Mystic Quest, pensato per la platea occidentale; lo strabiliante Final Fantasy Tactics, capostipite della serie di Ivalice, di cui fa parte anche un’opera non legata a Final Fantasy, cioè l’eccelso Vagrant Story; infine, un manipolo di giochi legati ai chocobo. Adesso gli spin-off sono così tanti che in questa sede dobbiamo limitarci ad enumerare le serie: Crystal Chronicles (6 giochi), Dissidia (3 giochi), Theatrhythm (2 giochi), Brave Exvius (2 giochi), Dimensions (2 giochi), Artniks (2 giochi); a questi aggiungiamo gli incrementi delle sotto-serie già esistenti (Ivalice si è arricchita di 5 giochi negli ultimi vent’anni, Chocobo una dozzina abbondante) e gli spin-off non (ancora?) legati a sotto-serie, come Mobius, Record Keeper ed Explorers. Chiaramente, non tutta questa roba è degna del nome che porta.
Ma il titolo che fece discutere più di tutti fu Final Fantasy X-2, primo sequel videoludico nella storia della serie. Fino al suo annuncio (2002), la linea di demarcazione fra main series e spin-off era netta: questi ultimi offrivano esperienze molto diverse rispetto ai capitoli numerati, tanto sul piano narrativo – si trattava di giochi tendenzialmente più leggeri – quanto su quello ludico – la stragrande maggioranza degli spin-off non appartiene nemmeno al genere JRPG classico. Final Fantasy X-2 aveva sovvertito l’ordine (non a caso, lo abbiamo incluso nei momenti più wtf della serie) e, soprattutto, aveva spalancato le porte a nuovi sequel in futuro. Nel 2004 fu avviata addirittura una compilation: Final Fantasy VII divenne una saga, composta – oltre che dal gioco originale – da ben tre giochi, un film e un OAV.
Poi fu la volta di FFXII, con Revenant Wings (2007), di FFIV, con The After Years (2008) e, infine, di FFXIII, che ricevette ben due sequel: XIII-2 e il bizzarro Lightning Returns, ma ne parleremo più diffusamente fra pochissimo. Final Fantasy aveva perso la sua magia – che risiedeva anche nel fatto che ciascuna storia fosse unica e irripetibile – e molta della qualità che fino ad allora aveva contraddistinto la serie.
La crisi di identità e la Fabula Nova Crystallis
A cavallo fra vecchio e nuovo secolo, dunque, Final Fantasy si trovò inserito in un contesto magmatico, tra la fusione, il flop del film e le tendenze espansive del marchio. L’elemento identitario comune si legava al concetto di autorialità: in quegli anni Final Fantasy faceva ancora capo ad alcuni elementi chiave di Square, che avevano consolidato i propri ruoli nello sviluppo della serie prima del boom planetario del 1997.
Il più importante, ovviamente, era Hironobu Sakaguchi, creatore del franchise e director fino a FFV, poi producer fino a FFXI; tuttavia, anche in buona parte dei giochi che ha “solo” prodotto, ha ricoperto altri ruoli, come ad esempio in FFIX, che può definirsi una vera e propria creatura di Sakaguchi. In secondo luogo Nobuo Uematsu, autore delle colonne sonore fino a FFXI, amatissime dai fan. In terzo luogo, Yoshitaka Amano, character designer fino a FFVI e ancor oggi autore dei loghi e degli artwork promozionali. E poi c’erano i vari Kitase, Nomura e Toriyama, tuttora legati allo Studio 1 di Square Enix.
Ma Sakaguchi e Uematsu lasciarono Square prima della fusione con Enix, e Amano ricopriva un ruolo via via meno rilevante. Non è un caso che la crisi di identità della serie si sia manifestata proprio negli ultimi quindici anni, da FFXII – che era sì maestoso e curato come i predecessori, ma deludeva per il comparto narrativo e per alcune innovazioni – in poi. Allo stesso modo non è un caso che, fra i momenti più toccanti di Final Fantasy, ne abbiamo scelti pochissimi tra i titoli recenti.
Square Enix cercò subito di ritrovare un’identità, annunciando nel 2006 la Fabula Nova Crystallis, una sotto-serie caratterizzata da una lore comune, in cui rivestono grande importanza i cristalli e il pantheon. Tutto ruota – rectius, avrebbe dovuto ruotare – al dio matricida Bhunivelze e alle divinità da lui create. Altre creature latu sensu divine si collegano ai cristalli.
I vari episodi della Fabula non erano stati concepiti per essere in stretta correlazione fra loro, e, anche nel caso in cui Square Enix avesse accarezzato l’idea quindici anni fa, ben presto la archiviò. L’obiettivo era solamente quello di unificare sotto lo stesso mito i FF che sarebbero usciti da quel momento; come era stato fatto con la compilation di FFVII, mutatis mutandis. Insomma, si stava cercando un’identità, come dimostra anche l’elemento stilistico costituito dall’utilizzo del latino ad minchiam, che ho voluto scherzosamente sottolineare nelle ultime righe.
I primi tre giochi avrebbero dovuto essere Final Fantasy XIII, Final Fantasy Agito XIII (uscito col nome di Type-0) e Final Fantasy Versus XIII.
Mettendo da parte per un momento l’ultimo, soffermiamoci sugli altri due. Entrambi sono capostipiti di una saga all’interno della sotto-serie: FFXIII, come già accennato, fu seguito da XIII-2 e Lightning Returns, Type-0 da Agito e Awakening, entrambi inediti in Europa. FFXIII è maggiormente focalizzato sul mito e le sue divinità, mentre Type-0 si interessa maggiormente del lato umano, focalizzandosi sul tema della guerra. Fanno parte della Fabula, ma sono ambientati in universi separati, sicché i collegamenti risultano così tenui da non raggiungere l’obiettivo di fornire un elemento identitario.
FFXIII costituisce probabilmente il punto più basso toccato dalla main series. Ed è quasi paradossale, se pensiamo che fu sviluppato proprio dal primo dipartimento di Square Enix, l’erede di quello dietro a FFVII, VIII e X: in un certo senso, rappresentò un binario morto, che decretò il fallimento della filosofia della ultralinearità inaugurata da FFX, il primo capitolo della serie privo di World Map, caratterizzato per giunta da un level design poverissimo. Nel 2001 tale filosofia si era rivelata un successo, ma nel 2009 i giocatori non poterono esimersi dal constatare che si trattasse di un JRPG “a corridoi”, nemmeno graziato da una trama avvincente. Ciononostante, furono sviluppati ben due seguiti, recepiti pure peggio del loro predecessore. Nei primi anni Dieci di questo secolo la reputazione della serie era ai minimi storici, avendo totalmente fallito nel ricambio generazionale.
Non a caso, FFXV, pur facendo parte della Fabula Nova Crystallis (che spero si sia conclusa con esso, NdR), si rivelò completamente diverso. Innanzitutto, stravolse il gameplay, presentandosi come un open world caratterizzato per la prima volta nella serie da un battle system in tempo reale. Inoltre, prese le distanze della Fabula: per motivi genetici, non poteva risultarne avulso (infatti FFXV altri non è se non… rullo di tamburi… Versus XIII, in seguito a uno dei re-brand più imbarazzanti della storia del videoludo), ma lo relegò ad elemento di contorno, eliminando tutta la terminologia specifica che era stata creata nella decade precedente.
Final Fantasy VII Remake: una nuova speranza
Insomma, gli ultimi dieci anni sono stati un inferno per la serie. Oltre a quanto ho già detto in relazione alla Fabula Nova Crystallis, ci fu anche la debacle di FFXIV: uscito nel 2010, il MMORPG di Square Enix si era rivelato un flop, anche sul piano commerciale, costringendo la software house a un totale ripensamento, che sfociò in una rerelease nel 2013 (a ben TRE anni dalla prima), finalmente di qualità, come dimostra il continuo aggiornamento del gioco, che lo scorso luglio è giunto alla quinta patch.
Alla fine di quelli che sono stati anni di vero marasma in Square Enix si colloca Final Fantasy VII Remake, che potrebbe costituire una soluzione alla crisi di identità di cui ha sofferto la serie. Ciò potrebbe apparire paradossale – dal momento che proprio Final Fantasy VII fu un punto di non ritorno – ma non lo è, perché sono passati 23 anni. Nel 2020 non ci aspettiamo che la serie torni al medieval fantasy degli albori; forse il prossimo Final Fantasy online potrebbe adottare questo stile, ma non è nemmeno da dare per scontato. Parimenti, non ci aspettiamo nemmeno che i prossimi giochi siano JRPG a turni: se nel 2013 un FFXV action aveva fatto storcere il naso a più di qualcuno (me incluso, ovviamente, NdR), nel 2020 un Final Fantasy VII Remake action sembra l’unica scelta percorribile. Potremmo avere altri FF a turni e medievali in futuro, ma saranno spin-off (oppure si chiameranno Bravely Default…).
D’altro canto, sappiamo anche che il remake di Final Fantasy VII si articolerà in svariati giochi, e non è detto che nel frattempo escano altri FF numerati, anzi, tenendo conto dei tempi di lavorazione di Square Enix, lo riteniamo abbastanza difficile. Di conseguenza questi anni (e questi giochi) serviranno per settare nuovi standard per la serie, che si sta allontanando sempre più dalle origini, tanto in termini stilistici quanto in termini ludici.
Final Fantasy VII diventa un nuovo punto di partenza (non a caso, pur incorporando alcuni elementi della compilation, pare che prenderà le distanze da essa), sperando che nel frattempo Square Enix riesca ad escogitare qualcosa di meglio della Fabula Nova Crystallis. E, anche se non ci riuscisse, nel 2026 può sempre uscirsene con un remake (o meglio, una trilogia remake) di Final Fantasy VIII. Conosco gente che darebbe una gamba (che tanto non serve per impugnare il controller) pur di giocarci…