Il Freud di Netflix unisce misticismo e scoperte con la mente, costringendo il pubblico ad entrare in terapia
Sigmund Freud, una figura affascinante. Neurologo, ebreo, padre della psicanalisi, intelletto eccelso che rivoluzionò la medicina del Novecento, dando nuova rilevanza alle sofferenze della mente. Un poliedrico tutto da esplorare, che si manifesta negli scritti fino a noi tramandati, ma che riserva ancora i misteri nascosti nelle camere introspettive dall’inconscio di un’icona seducente e accattivante.
Il conturbante che diventa stato ammaliante proprio in virtù delle scoperte sovversive che hanno ridefinito i confini della personalità umana, apertesi nel tempo a un’intera gamma di studi e valutazioni, fino a venir rimaneggiate dalla possibilità del racconto, quello ispirato dall’abbacinanti teorie trasmigrate poi nell’ambito dell’intrattenimento.
Nel bilaterale approccio al cinema e alla tv che le analisi freudiane e filosofiche hanno per anni – e continuano a farlo – prodotto, rese sostegno stesso della critica e dello studio degli oggetti semiotici e visivi tanto da fondare principi di lettura delle immagini e dei segni, è anche nel versante della possibilità del contenitore di storie che i due medium hanno accolto testi tanto elaborati, rendendoli protagonisti delle proprie narrazioni.
Partendo, ad esempio, dalla vita di psicologi e psichiatri stessi, da autobiografie a rivisitazioni dei rapporti e dei lavori tra una cerchia ristretta di pensatori brillanti, fino alle applicazioni delle loro stesse chimere all’interno delle storie mostrate. Tutto ciò che Freud e compagni hanno ideato e che hanno fatto da leva per un audiovisivo tanto analitico quanto affabulatorio, intrigando con il potere insormontabile della mente, sfruttandolo a proprio discreto piacimento.
Quando Freud si ispira a Sherlock e fallisce miseramente
Nel tentativo di mescolare l’individualità del dottor Sigmund Freud con le sue scoperte ancora ai primi passi, ma già molto indigeste per altri, Netflix propone l’operazione ideata da Marvin Kren, Benjamin Hessler e Stefan Brunner, per una serie di fittizia realizzazione che mischia la psicanalisi con il terrore, l’angoscia, un pizzico di magia, per un esoterismo d’apparenza e fintamente suggestivo, che cammina parallelamente al destino delle idee inesplorate del luminare.
Freud è il blando tentativo di conquistare con ampollosità e (finta) trasgressione attraverso il contorto intrecciarsi di un racconto per puntate, che mira ad un unico fine, mentre perde nel corso della propria struttura il risultato. Il tutto rendendo cedevole l’intenzione prima di unire in maniera convincente – ma, ancor più importante, attraente – la scienza col misticismo, perdendosi nell’insulsa drammaticità di una storia debole e poco invitante.
Nell’acuta scelta di voler, in qualche modo, ribattere lo stesso percorso intrapreso da un cult televisivo come la serie britannica Sherlock, ponendo al proprio centro non più un protagonista di fantasia, ma pur sempre trattandosi di un personaggio in grado di suscitare il medesimo grado di curiosità e interesse, lo show di Netflix prende dall’opera di Steven Moffat e Mark Gatiss soltanto il sentore, lasciando che questo venga sovrastato dalla pesantezza di un thriller che, come molti dei suoi personaggi, cade presto in uno stato di rintronato trance.
Un trauma più per gli spettatori che per le pedine dello show in sé, prese da un turbinio dove l’incontrasi di horror e mistery offusca quelle teorie che, se ben esplorate, avrebbero potuto davvero rendere grazia a una serie sui segreti che il nostro Io porta, ma citandole piuttosto per sbaglio e non riuscendole a mettere adeguatamente al servizio di Freud.
Uno stato di trance continuo, per la serie e gli spettatori
Un sensazionalismo semplicistico in cui i protagonisti rimangono prigionieri, dove il potenziale sfugge a qualsiasi logica degli episodi, facendo dell’isteria uno dei veicoli portanti della serie, ma riversandola altresì sulla pazienza del proprio pubblico.
Quello stato di sonnambulismo e manipolazione, che tenta fallacemente di muovere i fili della trama, si afferma condizione sospesa e immutabile di un’incoscienza artefatta, in cui tangibile e intangibile vanno scontrandosi, senza giungere però su nessun terreno comune.
Non sono gli interni sontuosi ed eleganti a bastare al prodotto targato Netflix con Robert Finster, ma ben che meno il suo attore protagonista, improprio nel suo Sigmund Freud reso, invece che uomo e studioso, ancor più emarginato. Macchiettistico fantasma più di presenza che di spirito, che non racchiude nulla di quel genio ribelle e ricercatore che conosciamo, continuando a risultare assai più rilevante nei libri di storia, che in questa surreale scrittura seriale.
Freud si disperde nella sua nebulosa fattura dove l’ipnosi servirebbe come incentivo per lo spettatore a continuare la serie, inutilmente astratta e affettata da sfiancare, da cui l’unica sicurezza, quando se ne esce, è quella di avere bisogno di andare in terapia.