Una favola senza morale
Il Racconto dei Racconti è l’ultimo lavoro di Matteo Garrone, regista che per sua stessa ammissione, vede in ogni proprio film una nuova sfida, incarnata questa volta, in un’opera di matrice fantasy, che subisce però contaminazioni di vario genere, trasformandosi in un esperimento audace per portare il realismo nel fantastico, tinteggiandolo di velleità grottesche e allo stesso tempo cercando di conservare quell’etereo linguaggio visivo e narrativo che appartiene alla fiaba. Un progetto quindi difficile da gestire, e che infatti, risulta mancare in larga parte gli intenti.
[youtube url=”https://www.youtube.com/watch?v=L8e8S-4E7lY” autohide=”2″ fs=”1″ hd=”1″]
Il film sostanzialmente, alterna scene appartenenti a tre racconti de Lo Cunto de li Cunti, una raccolta di 50 fiabe in lingua napoletana scritte da Giambattista Basile e pubblicata nella prima metà del 600. Le tre storie pur appartenendo allo stesso universo narrativo sono sostanzialmente slegate tra loro ma presentano dei punti di incontro, si tratta infatti delle vicende di 3 sovrani tormentati da debolezze che li riportano alla loro dimensione più umana e verosimile. Nel primo, la bellissima Salma Hayek (che ricordo sempre principalmente per il suo ruolo di “sexy ballerina demoniaca” ne Dal tramonto all’alba) è una regina ossessionata dal desiderio di avere un figlio. Il re suo marito -un quanto mai sprecato John C.Reilly- sotto il suggerimento di un inquietante figuro non meglio presentato, decide di aiutare la moglie procurandole il cuore di un drago marino, che se mangiato dopo essere stato cucinato da una vergine, permette di rimanere incinta all’istante.
Così infatti andranno le cose. In segreto però, anche la giovane ragazza incaricata di cucinare il cuore di drago rimane gravida a causa dello stesso sortilegio e i due nascituri cresceranno sostanzialmente come dei gemelli inseparabili ma appartenenti a classi sociali diverse, cosa che creerà dei problemi soprattutto per la possessiva madre e regina di Selvascura. Il secondo racconto vede protagonista Vincent Cassel, sovrano dominato dalla lussuria, il quale si invaghisce del canto di una donna anziana che cercherà di sedurre in tutti i modi, prima ancora di scoprire a chi appartiene la melodica voce che lo ha cosi stregato. Ne seguirà la surreale vicenda di questa vecchia che grazie all’incantesimo di una strega (una di passaggio, così… senza troppe spiegazioni) diverrà magicamente giovane e bella potendo così assecondare le attenzioni del nobile. Infine seguiamo la storia del Re di Altomonte (Toby Jones) o meglio della sua giovane figlia, costretta a concedere la mano ad un orco per volere del padre, che si comporta in maniera quanto mai puerile.
Cosa non funziona nel film? Molto a dire il vero. Innanzitutto la commistione di generi mal si sposa nel prodotto finito. Moltissime sono le fonti da cui attinge Garrone, che si ispira tanto a Mario Bava, quanto a Comencini giungendo poi verso i lidi de Il Trono di Spade. Ispirazioni forse troppo distanti tra loro visto che in qualche modo sembra sempre tutto fuori posto: le scene gore, che mostrano con estrema e quasi compiaciuta evidenza carni e sangue, probabilmente inserite per assecondare quell’imprinting crudo e reale che era negli intenti del regista, sembrano sempre qualcosa che stona e inserito a forza, qualcosa di superfluo e per nulla indispensabile, non creano impatto emotivo di alcun genere e non servono ad accrescere alcun tipo di inquietudine. Basti pensare alla scena in cui la regina mangia il cuore del drago, inutilmente dilatata e per nulla valorizzata dalla messa in scena. Messa in scena che pecca tra l’altro nell’essere troppo autoreferenziale, ancora una volta compiaciuta, un esercizio di stile fine a se stesso, perennemente alla ricerca dell’inquadratura suggestiva che soddisfi il Garrone pittore, ma poco propensa a mettersi al servizio del ritmo narrativo, che risulta spesso schizzofrenico, confuso, assonnato, lacunoso. La percezione che si ha è che le tre storie scelte da Garrone pescando dall’opera di Gianbattista Basile (ovvero La Pulce, La vecchia scorticata e La cerva fatata), non siano adatte ad una trasposizione cinematografica, tanto sono ingenue e surreali, o quanto meno, non è stato in grado di sceneggiarle in modo convincente. Le storie infatti sono inconcludenti, i dialoghi sterili e le performance di tanti grandi attori, ampiamente sottotono. Non si capisce infatti il senso di realizzare un film da 12 milioni di dollari per ingaggiare star internazionali quando avrebbero potuto essere utilizzati per scenografie più credibili ed effetti speciali più riusciti.
Certo, Garrone ha detto chiaramente di aver cercato un feeling più “artigianale” nel ricreare il mondo fantastico del film e le sue creature, ma di fatto, l’effetto finale, si discosta poco da un qualsiasi Fantaghirò… Cosa si salva? Beh, la fotografia di Peter Suschitzky (che ha lavorato in diverse opere di Cronenberg, ma anche in film come Star Wars: L’impero colpisce ancora, The Rocky Horror Picture Show e The War Game) è sicuramente notevole e da sola solleva le sorti estetiche e suggestive di un film che se no avrebbe ben pochi spunti di coinvolgimento. Un ottimo lavoro è stato fatto anche con le musiche, evocative, inquiete, delicate, perfette per le atmosfere che il film vorrebbe ricreare (anche in questo caso al timone c’è un vero fuori classe, il compositore Alexandre Desplat, candidato svariate volte al Premio Oscar che poi ha vinto con il film Grand Budapest Hotel). Infine, si deve dare un po’ di merito almeno al coraggio e all’originalità del progetto di Garrone, che ha cercato di portare la fiaba ad una dimensione più realistica, esperimento piuttosto unico nel cinema italiano. Purtroppo però non si è trovato un giusto e credibile punto di incontro tra le varie “personalità” dell’opera, non si è riusciti a modernizzare un modo di far cinema che rimane troppo autoreferenziale, narcisistico e di conseguenza destinato a pochi. Non si è trovato il modo di caratterizzare bene i personaggi ne di dare la giusta direzione a tre storie ricche di simbolismo, ma povere di sostanza. Peccato.