La pubblicazione del gameplay di Assassin’s Creed Valhalla ha scatenato le solite diatribe sull’originalità. Ma hanno senso?
Nuovo anno, stessa storia: Ubisoft annuncia il nuovo Assassin’s Creed Valhalla; in conferenza mostrano una semplice rivisitazione della saga; si scatenano le polemiche sulla poca originalità del prodotto. Il tema principale delle lamentele è sempre lo stesso: è un “more of the same”. Cosa significa, nel mondo videoludico, questo concetto? In linea generale, ci si riferisce teoricamente al riciclo di meccaniche, idee e strutture di gioco, in modo talmente sistematico da divenire indigeste per i giocatori. Nella realtà, questa specifica categoria valutativa viene utilizzata in modo alternato, a seconda dello sviluppatore coinvolto e della positività con il quale il brand in questione è identificato dalle minoranze rumorose del web: in modo fluido, il concetto di more of the same si può infatti facilmente trasformare in fedeltà all’identità della serie, a seconda del gioco in esame.
La saga di Assassin’s Creed, in tal senso, dimostra l’assoluta fluidità di questa categoria: nell’arco di pochi anni, il discorso dominante sulla serie è passato da “è sempre uguale” (in relazione al trittico Black Flag, Unity e Syndicate), poi spostatosi su “ha tradito l’identità della serie” (nel percorso avviato da Origins e continuato da Odyssey), per poi riassestarsi di nuovo sul “è sempre uguale” (all’annuncio di Valhalla). Ovviamente, le persone che sostenevano la prima posizione sono probabilmente diverse da quelle che invece apprezzavano il corso “tradizionale” della saga, mentre coloro che hanno criticato i cambiamenti radicali di Origins sono quasi sicuramente quelli che amavano i capitoli passati.
Ciò ci suggerisce, come scritto prima, che le lamentele che emergono sui social nascano da quella che si definisce minoranza rumorosa, ossia un gruppo di persone che, seppur minoritarie in un calcolo puramente matematico, riescono a far sentire il loro messaggio grazie a un lavoro mediatico o politico specifico: alcuni erano silenti quando le cose gli andavano bene, mentre si sono fatti sentire solo quando l’azienda ha deciso di puntare sulle altre parti del pubblico, anche a seguito del successo di formule diverse (The Witcher 3 in primis). A conferma del fatto che si tratti di varie minoranze che si alternano, abbiamo i numeri di vendita, che ci dicono che il numero di copie al lancio di ogni capitolo è andato aumentando in modo progressivo per tutta l’attuale generazione di console.
Assassin’s Creed Valhalla sarà troppo uguale o troppo diverso?
Nel caso specifico di Ubisoft, il more of the same è diventato in qualche modo non solo la descrizione più calzante (nella prospettiva comune) dei suoi brand, ma dell’intero agire aziendale. La “formula Ubisoft“, con la quale si intende la struttura tipica dei loro giochi quasi sempre sandbox e stracolmi di attività superflue, è uno dei drammi ricorrenti del settore, sia critico che di consumo. In tal senso, a volte le valutazioni sulla qualità dei sandbox si modellano persino sulla capacità degli sviluppatori di allontanarsi o di ristrutturare questi schemi: si pensi all’apprezzamento delle torri di Breath of the Wild, che ribaltano lo stile di quelle di Assassin’s Creed, o al focus sul combattimento di Horizon Zero Dawn, che mortifica la pochezza di quello della saga Ubisoft.
In molti ritengono ironico che Far Cry 3, titolo che ha rilanciato la saga Ubisoft dopo il fallimentare (economicamente, perché creativamente è un capolavoro) Far Cry 2, contenesse una frase che avrebbe poi caratterizzato l’approccio alla serie da parte dell’azienda francese: “Ti ho mai detto qual è la definizione di follia? Follia è… fare e rifare la stessa cazzo di cosa, ancora e poi ancora sperando che qualcosa cambi. Questa è follia”. Questa frase, pronunciata dal cattivo del terzo capitolo della saga, viene vista spesso nei commenti sui social per descrivere “la follia” di Ubisoft nel riproporre sempre la stessa cosa, sperando che cambi. Ma, come abbiamo visto prima, dubito fortemente che a Guillemot interessi cambiare: i numeri, unica lingua parlata dal mercato, gli dicono di continuare così.
Cosa accadrà, dunque, con Valhalla? Come verrà recepito? È evidente che le differenze meramente ludiche con i capitoli recenti siano limitate, sebbene non assenti. Questo significa che verrà tacciato anche dopo il lancio di “more of the same”? O sarà invece molto diverso, innescando il “tradimento della serie”?
Ma è davvero questo che ci importa, di Assassin’s Creed Valhalla?
Quello che invece appare evidente, è che ognuna delle due fazioni agli estremi tra il tradizionalismo e il cambiamento come principio, sono in realtà facenti parti di un unico, grande schieramento: quello del consumo. Entrambe le categorie valutative, infatti, applicano un principio qualitativo sul videogioco, limitandosi a considerarne dei parametri che sono più tipici di un prodotto industriale che di un’opera creativa. Il cambiamento rispetto alla tradizione, visto non in funzione del messaggio ma come qualcosa di necessario in quanto tale, è uno dei grandi mantra della nostra contemporaneità, figlia della retorica della Silicon Valley su un futuro tecnologico sempre in divenire, ma che non si premura mai di dirci cosa effettivamente sarà, questo fantomatico futuro. Non importa perché avvenga cambiamento o innovazione, ma deve avvenire e basta: la stessa Ubisoft, nel raccontare il suo prossimo Watch Dogs Legion, parla della meccanica del “gioca con chiunque” in quanto pura innovazione, senza sprecare troppe parole nel spiegare perché tale novità aggiunga qualcosa di rilevante al panorama videoludico.
È anche normale che sia così: non è mica l’azienda (o l’autore, se è per questo) a doverci dire perché qualcosa meriti la nostra attenzione, ma deve farlo la critica. Così come è la stessa critica a dover capire, spiegare e mostrare se vi è stato un “tradimento” del brand. Qui le cose si fanno più complesse, perché se la retorica dell’innovazione ha basi storiche solide ma si manifesta nella sua forma deviante solo negli ultimi anni, i processi di cancellazione dell’autore in favore dell’identità del brand vanno oramai avanti da decenni, e rappresentano la base di ogni corso di comunicazione pubblicitaria e di marketing.
L’azienda cerca di far fidelizzare fino all’identificazione il soggetto consumatore con l’oggetto narrato, facendoci dimenticare le persone coinvolte nella creazione dello stesso: è il processo per il quale riusciamo a mangiare il pomodoro del supermercato senza immediatamente pensare che lo ha raccolto uno schiavo nelle pianure della nostra stessa regione. Allo stesso modo, quando vediamo Assassin’s Creed vediamo Ezio e Desmond, non Patrice Désilets. È da qui che bisognerebbe davvero ripartire: il “tradimento” del brand non esiste, perché il brand non esiste. Di volta in volta, sono storie, narrazioni e flussi di significato che si rimodellano a seconda di chi ne ottiene il controllo, che sia il pubblicitario o lo sceneggiatore, il game director o il producer.
La vera domanda critica da farsi dunque non riguarda il cosa fa Assassin’s Creed Valhalla, ma il come cerca di fare qualcosa.
More of the shame?
Quando si possiedono oggetti culturali di tale portata come i videogiochi tripla A (ossia ad altissimo budget di sviluppo e pubblicitario), portare cambiamenti o rimanere fedeli al brand non è un merito, ma un normale processo di adattamento alle leggi di mercato, che vengono seguite e comprese non dai designer, ma dagli analisti. Abbiamo venduto più del precedente? Rimaniamo fedeli. Abbiamo venduto di meno? Cambiamo, o imitando il top della categoria o cercando una novità. L’intera storia produttiva di Assassin’s Creed segue in modo cristallino quest’evoluzione. Quello che invece non segue, a causa (grazie?) delle miriadi di persone coinvolte nei suoi sviluppi, sono i temi e i concetti espressi dalle esperienze prodotte dalla saga: dalla storia di Altair a quella di Connor, passando per Ezio e Bayek, infiniti insiemi di messaggi e valori si sono concatenati, a volte in netto conflitto tra loro, altre volte in fluida collaborazione.
La cosa più assurda, da un punto di vista critico, è che molto spesso questa ingestibile quantità di significati si manifesta in titoli fortissimamente politicizzati (a partire dalle ambientazioni fino ai temi superficialmente espressi), ma che raramente riescono a esprimere concetti efficaci, poiché smorzati (e persino contraddetti) da aggiunte produttive necessarie alle esigenze di mercato: persino il recente The Last of Us II, nonostante le sue indubbie qualità narrative ed espressive, ricorre a un numero inutile di ore e nemici da affrontare nel tentativo di esprimere il suo messaggio, finendo per annacquarlo.
Ecco perché lo scontro dicotomico tra “fedeltà alla tradizione” e “more of the same” è inefficace per i consumatori e per la critica: si focalizza sul valutare la distanza di un titolo dagli standard del settore, affibbiando di volta in volta un valore privo di effettivo significato (dato che il concetto stesso muta a seconda del brand) a un gioco. Nel mentre, come la critica ha giustamente fatto notare, nel tempo le aziende hanno perfezionato una vera e propria “arte del non dire nulla”, potendosi concentrare su cosa si fa piuttosto che sul cosa si dice, grazie a un pubblico impegnato a discutere di inutili fedeltà o tradimenti.
Propongo dunque la nascita di una nuova categoria valutativa: il “more of the shame”. In cosa consiste? È molto semplice: dato che sappiamo che le scelte aziendali sono spesso diverse da quelle creative, si prenda innanzitutto l’obiettivo che gli sviluppatori annunciano in fase pubblicitaria. Nel caso di Assassin’s Creed Valhalla: raccontare come i vichinghi non fossero solo bestie assetate di sangue, ma umani con una cultura complessa, che desideravano solo un nuovo posto dove vivere. Si guardi poi al gioco completo: quanti compromessi sono stati fatti, che siano evidentemente figli delle esigenze del mercato contemporaneo, che hanno intaccato il messaggio originale?
Per esempio, dal video di presentazione appare già evidente che le uccisioni con teste mozzate e femori fratturati saranno una delle (se non la) parti principali dell’esperienza ludica Valhalla. Questa caratteristica cambia il messaggio? Se sì, perché? In questo modo, potremmo tornare a concentrarci su ciò che davvero dovrebbe interessare l’appassionato e il critico: “cosa significa la cosa che sto facendo?“. Ne gioveremmo tutti. Tranne, forse, le pagine social basate sui flame.