Per l’occasione del decimo anniversario di Limbo, vi proponiamo una riflessione sulla poetica Playdead in relazione a quella dello scrittore Franz Kafka
Questo articolo è disponibile anche nella sua versione video sul canale Youtube di Glitch:
Quando pensiamo allo scrittore Franz Kafka, e più nello specifico al concetto di “kafkiano“, nella nostra mente si sovrappongono spontaneamente immagini e riferimenti di decine di opere narrative. Ciò accade perché con il termine kafkiano si indica generalmente una situazione paradossale, di solito angosciante, che viene accettata come status quo, implicando dunque l’impossibilità di qualunque reazione individuale, tanto sul piano pratico quanto in quello psicologico. Trovarsi in una situazione kafkiana significa quindi trovarsi in un contesto nel quale non capiamo come ci siamo arrivati, né tanto meno dove stiamo andando o come ne possiamo uscire. Nel mondo videoludico, alcuni tra i più solidi esponenti di questa corrente sono senza ombra di dubbio Limbo e Inside, di Playdead: pubblicati rispettivamente nel 2010 e nel 2016, sono stati entrambi diretti da Arnt Jensen, lead designer dello studio.
All’inizio di Limbo giaciamo a terra, nel mezzo di una tenebrosa foresta, caratterizzata da un bianco e nero fortemente in contrasto tra loro, reminiscenza del classico stile dell’espressionismo tedesco. Ci alziamo e iniziamo ad avanzare, svelando piano piano un mondo costruito apposta per farci morire ancora, ancora e ancora. Ben presto, ci renderemo conto che Limbo parla proprio della morte, analizzandolo nel gameplay e usandolo come perno tematico. Non avendo una vera e propria storia, l’opera ci incoraggia infatti a fantasticare sulle vicende alla base del mondo di gioco, disseminando indizi narrativi per tutto l’arco del racconto. Si pensi banalmente al nostro avatar, l’ombra cupa di un bambino totalmente nero, se non fosse per i suoi due, luminosi occhi bianchi.
Come da tradizione dell’iconografia cristiana, il limbo altro non è che la situazione permanente post mortem dei bambini ancora non battezzati. Infanti che non hanno commesso dunque alcun errore individuale, ma che semplicemente si ritrovano in quella situazione a causa del peccato originale, da cui non verranno mai liberati.
È proprio nel ruolo della nascita come atto peccaminoso in sé che troviamo riferimento evidenti all’opera di Kafka. Ne Il processo leggiamo di un uomo che viene perseguitato per un reato che lui stesso non conosce: infatti, non gli viene spiegato quali siano le reali imputazioni nei suoi confronti. Oltre al chiaro riferimento teologico, Kafka ci racconta del senso di colpa di essere venuti al mondo, nati senza che qualcuno ci abbia effettivamente chiesto il permesso, e accusati a prescindere di infrangere un regolamento non meglio precisato.
Anche in Limbo la nostra “nascita” come giocatori avviene senza sapere chi siamo, dove siamo e dove stiamo andando. Nel mentre, veniamo costantemente puniti per le nostre azioni grazie alla meccanica più caratteristica dei giochi Playdead, ovvero il trial and error.
Una delle critiche più frequenti rivolte ai giochi di Arnt Jensen riguarda proprio l’uso di questa meccanica, ma il fine dell’autore danese è quello di insegnare al giocatore come progredire solo a seguito del fallimento stesso. In sostanza: se inciampiamo su una trappola che ci trancia in due al primo giro, al secondo staremo molto più attenti. Questa tecnica è utilizzata per tutta l’esperienza di gioco, sia in Limbo che in Inside, e a un primo sguardo può sembrare tediante e dissociativa dell’esperienza, dato che interrompe il flusso narrativo. A lungo andare, ci si accorge però che è invece funzionale al tipo di sensazione che il gioco vuole generare, tra peccati originali e situazioni, appunto, kafkiane.
Limbo prende il via in una foresta con ragni giganti e legno marcio, per terminare in un impianto industriale in grado di controllare la rotazione fisica dell’intero mondo di gioco. Non è importante trovare un senso a quello che assistiamo, perché non c’è. Ci troviamo davanti a una carrellata surrealista di orrori e paradossi, sfocati lineamenti di un’idea di aldilà che è tutt’altro che idilliaca, ma anzi è punitiva. Il solo giocare a Limbo è snervante, e sembra quasi che abbandonarne la visione sia l’unica scelta liberatoria da compiere, per non sentirsi più straniati.
Per Inside, invece, questo genere di surrealismo onnipresente appare meno determinante, a causa dell’ambientazione decisamente più verosimile rispetto al primo gioco Playdead. Anche il parallelo letterario con Kafka sembra dunque esser meno efficace, visto che una delle fonti d’ispirazione più evidente sembra essere 1984 di Orwell, dove la struttura di una società grigia e totalitaria fa da cornice all’intera esperienza. Eppure, l’utilizzo della situazione kafkiana si ripete anche in Inside, se non rispetto alla dimensione narrativa, di certo in relazione a quella di gioco. Siamo infatti nuovamente dei bambini, catapultati in un ambiente ostile e punitivo, ignari del nostro scopo e della nostra identità, portati a fallire più e più volte per poter progredire.
Inside si differenzia però dalla prima opera dello studio in virtù dell’attenzione ad altri temi, che emergono dai suoi momenti più ludici. I puzzle infatti si evolvono tematicamente in varie direzioni, sfociando addirittura nel body horror più inquietante, ricontestualizzando le proprie meccaniche a seconda della situazione. Non è però difficile riscontrare il medesimo tema della colpevolezza dello stare al mondo che caratterizza tanto Limbo quanto Kafka. In Inside veniamo attivamente braccati dai nemici del gioco, che ci ricercano per motivi a noi ignari, quasi volessero venire ad arrestarci solo per l’oltraggioso reato di star giocando. Impariamo dunque sin da subito che siamo una sorta di peculiari fuggitivi, che invece di scappare allontanandosi dalla fonte del loro male si addentrano sempre più a fondo nella tana del lupo. Il pensiero razionale ci vorrebbe dire di tornare indietro, di fuggire dal nemico, invece di andargli incontro. Eppure avanziamo, verso una meta a noi sconosciuta.
In virtù del suo costante suggerire senza mai affermare, alla fine del viaggio di Inside abbiamo quindi la possibilità di reinterpretare, di ripensare a quanto fatto. C’è chi si vedrà come un eroe con una missione precisa e comandata; chi vivrà il tutto come il racconto di rivoluzionari contro il sistema schiavisti narrato dal gioco; chi penserà a una figura solitaria, la cui esistenza è giustificata solo dal completare un obiettivo prefissato. Una stratificazione contenutistica data, ancora una volta, non da una vera e propria trama, ma da un insieme di suggestioni, un susseguirsi di reinterpretazioni e situazioni deliberatamente… kafkiane.
Siamo di fronte a esperienze ostiche, tedianti e disagevoli. Siamo bambini che vengono decapitati e mutilati più e più volte. Eppure, continuiamo a giocare, a persistere. Perché presto capiamo che è l’unica cosa che possiamo fare. Perché nonostante l’angosciante e paradossale situazione in cui ci troviamo, nonostante tutte le colpe che ci vengono imputante e nonostante l’ostilità del mondo in cui ci viviamo, c’è solo una direzione verso cui possiamo andare: avanti.