La serie Netflix 3% è una distopia basata sulla distorsione della meritocrazia e la toxic positivity
Uno dei meriti di Netflix è quello di aver portato ai suoi spettatori serie da tutto il mondo. Nel caso di 3%, si parla di una serie brasiliana iniziata nel 2016, e conclusa con la quarta stagione nelle settimane scorse. 3% è una distopia ambientata in un prossimo futuro in cui la fascia più povera della popolazione è tenuta sotto controllo grazie agli ideali della toxic positivity.
Tre su cento ce la fanno
La storia di 3% si svolge in Brasile, in un’epoca non troppo lontana in cui il grosso della popolazione vive in un’unica immensa favela che copre tutto il continente. Per sfuggire a questa vita di miseria però c’è una possibilità: partecipare al Processo, una selezione a cui ogni ragazzo può accedere al compimento dei venti anni, che richiede il superamento di una serie di prove per poter finalmente raggiungere l’utopica isola dell’Offshore ed entrare così nel 3% dei privilegiati.
Il Processo mira infatti a mantenere questa proporzione: tre persone su cento possono superare la selezione e diventare parte dell’élite che vive sull’isola, lontana dalle favelas e coccolata con tutti i lussi. Gli altri, il 97% rimanente, torneranno alla loro vita senza prospettive e non potranno mai più accedere al Processo. C’è quindi solo una possibilità in tutta la vita, e i successivi test del Processo puntano a determinare chi siano le persone davvero meritevoli di fare questo balzo sulla scala sociale.
Nel corso delle quattro stagioni, assistiamo alle vicende di un piccolo gruppo di giovani protagonisti, che partecipano al Processo ognuno con backstory e motivazioni differenti. Li vediamo confrontarsi e scontrarsi nelle prove fino a quando qualcuno sarà promosso all’Offshore mentre altri cercano di cambiare in altro modo la propria situazione. Non si può dire che la serie mantenga la sua brillantezza per tutta la durata, forse anche a causa di vicissitudini produttive poco favorevoli, tuttavia gli spunti offerti soprattutto dalla prima stagione di 3% possono portare a riflessioni interessanti sul fenomeno della toxic positivity.
La meritocrazia estremista di 3%
3% si può definire a tutti gli effetti una serie distopica, infatti come nelle migliori distopie abbiamo una parte consistente della popolazione oppressa da un qualche tipo di regime. Ma coloro che subiscono questa oppressione per la verità non si sentono davvero colpiti da ingiustizia sociale, anzi: grazie alla subdola propaganda diffusa dall’Offshore, gli abitanti delle favelas sono in buona parte sudditi entusiasti dei loro padroni privilegiati. Il popolo è talmente convinto della bontà del Processo che esiste un vero e proprio culto dell’Offshore, che tratta gli appartenenti al 3% come delle semidivinità, e il trasferimento sull’isola come un passaggio nell’aldilà.
Quella che vediamo in 3% è una dittatura meritocratica portata all’estremo. Il sistema ha elaborato un meccanismo che permette di “mettere in palio” a disposizione per chiunque l’ammissione alla élite, attraverso una sequenza di prove pensate per verificare le qualità dei candidati: intelligenza, rapidità, resistenza, autocontrollo, lealtà e così via. Uno dei motti ripetuti più spesso in occasione delle selezioni è: qualunque cosa accada, ve la meritate. Ovvero, l’esito di questa prova (e per estensione, la vostra condizione) dipende soltanto dalle vostre capacità.
A prima vista questo sistema può apparire davvero etico e coerente, poiché i vincitori del Processo sono effettivamente stati selezionati per le loro qualità. Tuttavia si capisce molto presto che il Processo stesso non è così trasparente, le prove sono indirizzate a testare la presenza di alcuni tratti caratteriali come la capacità di mentire, di tradire, di svilire e sopraffare gli altri. Quella che dovrebbe essere una selezione dei più meritevoli si rivela come un filtro a cui sopravvivono solo i più spietati. Inoltre è sempre possibile impostare i test in modo che escludano alcune categorie non desiderate per le loro caratteristiche fisiche o psicologiche. E infine bisogna considerare che le condizioni di partenza non sono davvero le stesse per tutti, tant’è che ci sono famiglie che riescono a superare ogni Processo e altre che invece non ce l’hanno mai fatta.
Toxic positivity e victim blaming
Tutta la società di 3%, pur nella sua dichiarata esclusività si basa sulla promessa di un possibile riscatto che sarà accessibile solo a un’esigua minoranza, e pone l’attenzione sulle qualità che bisogna esprimere per potersi affermare. I partecipanti al Processo sono continuamente spronati a non cedere, a dare il meglio di sé, a prepararsi a sacrificare qualsiasi cosa. Anche quando sono obbligati a scontrarsi gli uni contro gli altri, anche quando alcuni cadono e non possono essere aiutati, il messaggio è sempre quello di tenere duro, come nei più banali poster motivational da parete di una startup anni ’90.
Naturalmente non c’è niente di male nell’adottare una prospettiva “ottimista” nei confronti delle difficoltà, tuttavia quando questa positività è imposta dall’alto e utilizzata come via di fuga per qualsiasi forma di dubbio come avviene in 3%, allora siamo di fronte a un modello di toxic positivity istituzionalizzato. In questo approccio il pensiero positivo è l’unico accettabile, le disparità vengono minimizzate e la risposta alle ingiustizie è un’alzata di spalle, perché domani andrà meglio. È la stessa retorica del guerriero che si sente spesso anche a proposito di malattie terribili come il cancro, che nell’immaginario comune sembra colpire solo quelli che non lottano, per cui coloro che soccombono in fondo “se lo sono meritato”.
Gli sconfitti della cultura della toxic positivity, come quelli del Processo, non possono far altro che convivere per sempre con la consapevolezza di aver fallito l’unica loro possibilità di riscatto, cadendo così in un fatalismo cronico che li porta ad accettare qualunque ingiustizia, perché appunto se la sono meritata. Una sorta di victim blaming sistemico, che fa ricadere interamente sui perdenti la colpa del loro fallimento, anche quando era evidente fin dall’inizio che non avrebbero potuto vincere, perché il sistema era calibrato affinché loro ne fossero esclusi.
Anche se nel suo svolgimento 3% ribalta più volte la situazione e le posizioni dei personaggi, al nucleo di tutta la sua storia si possono trovare questi atteggiamenti che sono già riconoscibili nella nostra società, e sui quali sarebbe utile ogni tanto fermarsi a riflettere per rendersi conto di quanto realmente ci meritiamo e quanto invece ci è stato imposto senza che potessimo sceglierlo.