Cronache dalla quarantena e fenomenologia della fine: come Berardi analizza presenti concreti e immagina possibili futuri.
Nella lettura della più recente saggistica, avverto la costante presenza di una specifica sensazione: la presa di coscienza di un’apocalisse che non può in alcun modo essere evitata. Dalla sociologia alla biologia, dalla filosofia alla comunicazione, l’antropocene e le sue conseguenze hanno plasmato a fondo le ideologie e le scienze odierne, intervenendo in modo determinante sul vissuto e sul percepito di tutti noi. Di conseguenza, è con un innegabile seppur moderato nichilismo che ci orientiamo nel nuovo mondo che si sta formando, anche e soprattutto a seguito di un primo assaggio di apocalisse da Spillover, il Covid, che sappiamo essere solo il primo passo di un futuro che sentiamo già presente.
Come reagire a tutto questo? Ma sopratutto, dato che ho parlato di nichilismo, come possiamo resistere a tutto ciò senza diventare oltreuomini, dimenticandoci della collettività che ci ha nutrito e allevato? Una delle più interessanti premesse di Fenomenologia della fine, saggio di Franco “Bifo” Berardi recentemente pubblicato da Nero, risiede nel ribaltare il paradigma della catastrofe a partire dal suo significato: per Berardi, la catastrofe è letteralmente “la svolta”, un’evoluzione della prospettiva di tutti noi, oltre la quale possiamo forse scorgere un altro panorama. Il Covid, in tal senso, è stata ed è una vera e propria catastrofe: ha ribaltato posizioni e strutture, ha messo in luce le contraddizione del sistema e ha reso evidenti retoriche e processi linguistici oramai chiari a tutti coloro che prima non li notavano.
Chi immagina per primo, vince
Occorre immaginare il nuovo possibile, dato che l’imprevedibile ha lacerato la tela dell’inevitabile. Da qui ci chiede di ripartire il filosofo bolognese, sostenendo, purtroppo supportato dai dati a nostra disposizione, che i processi economici, sociali e di sfruttamento delle risorse globali avviati oramai decenni fa siano tristemente inarrestabili, o quasi. Certo, in pochi mesi di quarantena sei-globale abbiamo fatto tanto, ma in Fenomenologia della fine Berardi sostiene che non siamo stati effettivamente “noi” società a ottenere certi risultati, ma la pura potenza virale e batteriologica del Covid: l’aria è migliorata; la natura si è riappropriata di spazi che le erano stati sottratti; il petrolio ha perso qualsiasi valore. Eppure, come lui stesso nota nelle ultime giornate di questo atipico diario di viaggio, una volta che il sistema si è riavviato non abbiamo saputo dare seguito a queste piccole, involontarie vittorie.
Quella narrata da Bifo Berardi è dunque una rivoluzione virologica, che non attinge alle pur presenti sommosse popolari sparse per il globo, ma che si manifesta in quanto casualità, nata dall’ingordigia del sistema stesso, che si sta espandendo a tal punto dall’aver trasformato i nostri orizzonti d’espansione in orizzonti d’estinzione. In Fenomenologia della fine il capitalismo, che sconfigge la morte individuale con il perdurare dell’eredità economica, è un discorso che ci ha fatto perdere di vista l’utile, il piacevole e il sensuale, sostituendoli con l’inutile ed eccessivo accumulo. Di conseguenza, affidandosi a Baudrillard e Deleuze ma senza eccessi, Berardi ricorre all’iperespressività come sintesi della contemporaneità, talmente ritmata e inarrestabile da obbligarci alla costante esposizione del nostro pensiero, che non ha però il tempo di essere davvero pensato.
Proprio per questo, in un’epoca in cui il corpo diventa uno strumento espressivo e politico quanto (più de?) la parola, l’inazione è pura resistenza, è interruzione della macchina, è la frattura del Tempo, inteso come concetto astratto necessario per oliare gli ingranaggi del sistema. Ecco perché quella che è avvenuta, e sta ancora avvenendo, per Berardi è definibile come psicodeflazione: il virus, che biologicamente attacca principalmente i polmoni di chi influenza, al contempo soffoca i neuroni di tutti quanti, obbligandoci a un salto mentale e linguistico in relazione ai nostri paradigmi sociali. Che ruolo avranno i nostri corpi rispetto agli avatar virtuali, rilanciati dall’isolamento? La rinuncia all’azione è dovuta alla resistenza al sistema o alla cieca fiducia in esso? Ci sono, dunque, speranze per il futuro, o anche quello è destinato a collassare, in un modo o nell’altro?
In certe sfiducie generazionali Berardi mostra una certa anzianità di vedute che lui stesso conferma di avere: per esempio, la digitalizzazione dell’erotico e della sensualità non hanno soffocato la voglia di contatto cutaneo e diretto dei giovani e degli adolescenti, come un’intera generazione Erasmus dimostra, capace di accostare erotismi virtuali e sesso squisitamente fisico. Eppure, il racconto cronologico della quarantena tocca anche i fatti di Minneapolis e relative proteste, che lasciano trasparire una maggiore fiducia nei confronti delle resistenze popolari, non bianche e povere del mondo, rispetto all’apatia emotiva che per Berardi sembra caratterizzare le società odierne, almeno a giudicare da quel che emerge nei primi capitoli del diario.
Indipendentemente dalla capacità di leggere i futuri di ogni fascia generazionale e di ogni forma di contatto umano, in Fenomenologia della fine emerge un percorso personale, che riesce però a fondersi splendidamente con le prospettive di chi non ci sta solo narrando delle vicende, ma che ci sta sfidando a immaginarne di nuove, a lottare per la creazione di nuovi futuri. Al lettore non resta che lasciarsi assuefare dalla pulizia espressiva del testo, che solo di rado si lascia andare eccessivamente all’accademico, e avviare mentalmente lo stesso percorso di ribaltamento linguistico e di prospettive a cui ambisce Fenomenologia della fine. Nella speranza condivisa di riuscire a immaginare un futuro diverso, nuovo… catastrofico.