Le strade del male arriva su Netflix. L’adattamento cinematografico del romanzo di Donald Ray Pollock esplora i peccati capitali e la caducità dell’essere umano
Il peccato si tramanda di padre in figlio, di generazione in generazione. Questo sembra volerci dire Antonio Campos, col suo Le strade del male (The Devil All the Time), adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Donald Ray Pollock, che si tramuta in un’opera mistica che mescola religione ed empietà, bene e male, mostrandoci quanto la caducità dell’uomo ne renda labile il confine.
The Devil All the Time (su Netflix dal 16 settembre) ci porta dagli anni ’40 fino al ’60, attraversando l’Ohio e il West Virginia in una sorta di road movie a cui il titolo italiano ammicca maggiormente, a bordo delle vetture dei protagonisti, mentre si intrecciano le loro vite e i loro destini in maniera scientifica, con D. Ray Pollock deus ex machina che presta persino la sua voce per quella narrante del film, e Antonio Campos nelle vesti di suo fedele predicatore.
Un predicatore che segue la retta via, non come il reverendo Preston Teagardin interpretato da Robert Pattinson, e che fa della lussuria e finanche della gola le sue squallide peculiarità. I vizi capitali sono il leitmotiv di un’opera che, intrecciando le esistenze dei tanti protagonisti, ne rimarca colpe e peccati, come quelli già citati, passando per l’avarizia del poliziotto Lee Bodecker (Sebastian Stan), la superbia e ancora la lussuria del “fotografo” Carl (a cui aggiungiamo una serie di altri peccati), interpretato magistralmente da Jason Clarke, l’accidia di alcune donne portate sulla scena, a partire da Lenora (Eliza Scanlen) o ancora la superbia di uomini come Tater Brown (Douglas Hodge) o il suo opposto Roy Lafferty (Harry Melling), fino ad arrivare all’ira di Arvin Russel (Tom Holland).
“Lì fuori è pieno di figli di puttana”. Questo insegna Willard (Bill Skarsgård) a suo figlio Arvin, che un domani lo ripeterà continuamente, come un mantra, ormai indelebile nella memoria, dopo aver assistito ad un regolamento di conti di suo padre nei confronti di alcuni ragazzi che avevano osato fare battute pesanti sulla moglie e quindi sua madre. Willard è un uomo devoto, come la maggior parte di quelli che incontriamo sulle strade del male tra l’Ohio e il West Virginia, ma la sua fede lo porta a compiere sacrifici estremi, folli nel nome del Signore, rovinando la futura esistenza di Arvin. Perché, come abbiamo detto in apertura, le colpe dei padri ricadono sui figli.
Di certo la religione, e in particolar modo quella cristiana, non viene dipinta candidamente in un racconto in cui tutti coloro che si professano fedeli o ancor peggio uomini di Dio rappresentano il peggio del peggio in circolazione, lerci dentro e fuori, con una sporcizia ostinata che allegoricamente pervade i vestiti e i corpi dei personaggi, da fango a sangue, da una torta cosparsa sul volto a mani inzaccherate di sugo di fegatini di pollo.
L’importanza dell’automobile
Niente o quasi esce pulito da Le strade del male, nemmeno i morti la cui ingenuità sembra una colpa, come nel caso dei poveri sprovveduti che salgono sull’automobile di Carl e Sandy. Proprio l’automobile è un mezzo centrale in questa storia, perché all’interno di essa o tramite questa si compiono azioni nevralgiche nell’economia del racconto. È con la macchina che i due svitati serial killer caricano gli autostoppipsti; è il luogo in cui si consumano più volte atti impuri; il mezzo da cui scende Willard per il suo famoso regolamento di conti e farà la stessa cosa Arvin anni dopo, usando persino il cofano di un’auto per punirne uno. È ancora con la macchina che Lee si sposta sulle scene del crimine o per suoi biechi affari; o con cui una donna (evitiamo spoiler gratuiti) andrà incontro alla morte. E altri esempi ancora si potrebbero fare citando l’automobile, manifesto mezzo del peccato, usato per attraversare le strade del male.
In questo macabro noir firmato dai fratelli Campos, con Antonio alla regia e Paulo alla co-scrittura, il cast corale è senza dubbio un elemento fondamentale per la riuscita del film, e la scelta degli attori risulta indovinata, con un Pattinson perfetto in versione viscida e i vari comprimari che rispondono presente, a partire da un quasi irriconoscibile ma stupefacente Harry Melling, che per i più resta Dudley Dursley nella saga di Harry Potter. Di certo, in un’opera del genere, non è facile dare a tutti la giusta caratterizzazione, ed è un peccato che alcuni personaggi non siano stati approfonditi a dovere, come nel caso del Carl di Jason Clarke, che sembra uscito da Mindhunter e meriterebbe quasi un film a parte.
Persino Tom Holland, in fin dei conti “protagonista”, entra in scena dopo circa quaranta minuti e viene messo da parte più volte in favore dell’aggrovigliato intreccio di sottotrame e personaggi. Sa comunque imporsi sullo schermo anche con un minutaggio non esagerato, e quella genuinità e fanciullezza à là Peter Parker diventa, paradossalmente, strumentale in un personaggio diviso a metà, tra un’indole pure e bonaria e la risolutezza di chi è cresciuto sulle strade del male. Nel racconto dei Campos e di D.R. Pollock è quasi l’eccezione che conferma la regola, ma che al contempo ci regala un finale in cui si intravede un barlume di speranza per la razza umana, perché se è vero che i figli sono destinati a percorrere la strada dei padri, è altrettanto vero che a volte con determinazione e magari un po’ di fortuna si può provare a invertire la rotta.