Su Netflix arriva il docufilm sulla vita dello storico Biggie, icona del rap e leggenda americana
Da Fulton Street il giovane Christopher Wallace ne ha fatta di strada. Tra spaccio, rapine, malavita e rime, è diventato un uomo e si è elevato a mito.
All’anagrafe Christopher George Latore Wallace. Per tutti è Biggie, o meglio, The Notorious BIG (dal 01 Marzo su Netflix con I Got a Story to Tell).
Nel docufilm di Netflix Biggie: I Got a Story to Tell, la vita del pilastro dell’East Cost è narrata dalla sua infanzia nelle strade di Brooklyn, passando per i viaggi dai nonni in Giamaica, ai primi palchi, le faide, i premi, fino a concludersi con la tragica e controversa esecuzione del 1997.
Le vite delle star della musica sono sempre contornate di aneddoti, curiosità e storie. Quelle delle leggende, però, sono piene di oscurità e luce.
Biggie era un ragazzo genuino, profondamente buono ed introverso. Questo traspare da tutte le persone che l’hanno conosciuto e gli sono state vicino. Dalla mamma Voletta, agli amici d’infanzia come C Gutta, o lo stesso Puff Daddy, produttore discografico della Bad Boy.
Gli errori, però, iniziano ad arrivare prestissimo, in concomitanza con la passione della musica che nasce dallo zio cantante, conosciuto in un’estate torrenziale in Giamaica, e portato con sé durante i concerti. La riconoscenza di Biggie era anche questa d’altronde, restituire a tutti una parte di quanto gli avessero dato in gioventù.
La narrazione musicale di Netflix è forte, d’impatto, dritta, come le rime di BIG. Arriva potente nello stomaco dello spettatore, che dopo aver imparato a conoscere e comprendere in parte le canzoni dell’universo di Poppa, si ghiaccia durante la narrazione della faida tra West e East Coast. L’eroe di Brooklyn è tutto ciò che l’estro creativo sogna di poter creare. Capacità di sapersi adattare, leggere la musica, reinventarsi negli anni. La maturità della scrittura, del flow, del genio di Christopher è fuori dal comune, ed è solo questione di tempo prima che tutto si sciolga come neve al sole.
L’alternanza continua di filmati amatoriali (per lo più realizzati dai suoi stessi amici) e video ufficiali tra TV, premiazioni e radio, ci dona più ritmi.
La modulazione nell’evoluzione della produzione di Netflix è costante. Il beat è vellutato, come la voce di Biggie, ma tagliente. Sin dall’inizio suona la carica a spron battuto, offrendoci innumerevoli spaccati di quotidianità. La visione ci porta in un mondo fatto di delinquenza, povertà, fama e successo. Una vita dettata dalla legge del contrappasso, con un esito talmente crudo da far impallidire anche il Sommo Poeta.
L’espiazione, inconsciamente, avviene sul palco mentre si grida alla folla e si canta al microfono. Biggie non è un semplice rapper; lui è l’East Coast. Lui è Brooklyn.
Il suo stile si impadronisce della scena americana, riuscendo a battagliare anche con mostri come Dr. Dre, Snoop Dogg e, ovviamente, 2Pac.
Il ragazzone newyorkese, in pochissimo tempo, ha rivoluzionato ogni cosa. Da Puff Daddy, passando a Jay-Z, tutti sono increduli del suo talento. “Sembra essere arrivato da un altro pianeta. È il rapper più forte della storia, lo ripetevo quando era vivo, pensa ora” dice Daddy davanti alla telecamera, con il suo solito modo di fare strafottente, macchiato però da una punta di dolore mai sopito.
Con Biggie: I Got a Story to Tell, Netflix riesce a centrare pienamente il focus: non serve enfatizzare una storia per narrare di un’icona, basterà raccontarne le verità.
Il docufilm della N rossa è un piccolo gioiellino di questo mondo. Un prodotto originale, fresco, condito dallo stile gangsta rap che ha plasmato i Mafia Boys della sua crew. Le storie e i racconti entrano dentro, mentre veniamo trasportati dalle hit di Ready to Die (tutte in sottofondo e in live) l’album che consolidò il genio di Biggie.
Una storia agrodolce, ricca di lucida follia, geniale ambizione e arte creativa. Una vita al limite destinata a riscrivere per sempre le pagine della musica, diventando un’icona per tutti quei ragazzi neri rimasti per troppo tempo nelle strade di New York, Boston e Philadelphia. Una narrazione capace di sfatare qualche tabù, riaggiustare il tiro di molte falsità e, soprattutto, di elevare nuovamente la leggenda di quest’incredibile artista. Perché Biggie era tutto questo, un uomo del popolo, portavoce di un mondo troppo profondo per essere spiegato, ma perfetto per essere rappato.