Ripercorriamo insieme la carriera e la visione progettuale di Michel Ancel, lo strambo ed eclettico francese che ha investito tutto il possibile nella costruzione di un approccio il più possibile visivo al videogioco
Progettare non è un lavoro che predilige in senso assoluto un approccio agli altri possibili. Ci sono persone che potrebbe preferire, per esprimersi al meglio, un modo specificatamente tecnico o strettamente legato al mezzo con cui si crea. L’importante, per un progetto efficace, è che si percepisca in modo netto la persona che ha realizzato un prodotto: che sia questa a definire il lavoro, non che la sua personalità si perda all’interno di regole e tendenze. Ovviamente il videogioco non fa eccezione e ci sono decine di esempi possibili per dimostrare questo.
Pensate a Hideo Kojima e al suo voler piegare in un senso cinematografico ogni gioco che realizza, a Shigeru Miyamoto e al suo approccio disneyano di fabbrica dei sogni o ancora a Sam Lake e alla creazione di universi narrativi ergodici, speculativi e complessi dentro il quale il gameplay si presta a contaminazioni che mirano in direzioni e ispirazioni decisamente disparate. Insomma: essere progettisti di videogiochi (ma vale per qualunque tipo di progetto) non significa affatto approcciarsi in un modo univoco o, ancora peggio, che si annulli il proprio essere. Prediligere un approccio agli altri, quindi, è una questione che dipende dalla conoscenza di se stesse o se stessi; di capire dove colpire un determinato ambito e quali aspetti esaltare. Un esempio perfettamente calzante – tanto quanto i precedenti – di questo è rappresentato da Michel Ancel, il creatore di Rayman e di Beyond Good and Evil.
Credibilità e arte
Elencare e descrivere singolarmente ogni lavoro che Michel Ancel ha firmato in trentun anni di carriera – terminata con l’abbandono delle scene nel settembre dello scorso anno – sarebbe ben poco utile e non porterebbe a ragionamenti costruttivi. Preferisco, dunque, discutere e analizzare il processo che lega i giochi che ha realizzato: lo sguardo attraverso il quale ha filtrato qualunque cosa lo abbia in qualche modo coinvolto. Per parlare di questo va sviscerata la formazione e collocati i primi lavori svolti all’interno dell’industria videoludica, che ci sono particolarmente utili per connotare l’approccio del game director che oggi conosciamo.
La carriera in quella che poi è diventata la sua casa per moltissimi anni, Ubisoft Montpellier, comincia in veste di grafico e character designer per vari progetti diretti da Nicolas Choukron. Un lavoro che da subito fa spiccare la tendenza di Ancel di dare più spazio possibile a ciò che è strettamente visivo in un videogioco, che diventa sempre di più – col passare degli anni – la vera e propria corrente all’interno del quale far passare ogni progetto che lo ha coinvolto. Lo stesso Rayman e i conseguenti Rabbids nascono prima di tutto come concept di personaggi e mondi, e solo dopo gli viene costruito attorno un sistema ludico credibile e che ne possa valorizzare la potenza artistica.
Altro aspetto fondante della filosofia di Michel Ancel nel videogioco è rappresentato da una costante ricerca della verosimiglianza e della credibilità che deve in senso assoluto collegarsi con la ricerca artistica e visiva. Questo non significa creare contesti fotorealistici o tecnicamente perfetti, o meglio non soltanto. Piuttosto si tratta di utilizzare la tecnologia in funzione dell’espressività, di quel che si vuole ottenere. Esempi di questo approccio nell’approccio sono i due tie-in cinematografici da lui creati: quello per King Kong di Peter Jackson e per Tin Tin di Steven Spielberg. Qui la verosimiglianza è richiesta perché i prodotti sono derivanti dal cinema. Non mancano, ovviamente, esempi di ibridazione di questi due modi: Beyond Good and Evil è forse quello che maggiormente declina un’unione tra visivo come punto di riferimento e creazione tecnica verosimile, ma i futuri Wild e Beyond Good and Evil 2 (progetti che ora proseguono senza Ancel) probabilmente saranno ancor di più evidenti di questa mentalità.
Spazi di lavoro
La creazione di contesti in cui l’arte possa muoversi in modo e in senso assoluto è quindi la chiave di lettura fondante per l’intera carriera di Michel Ancel. E lo è anche nella creazione di tecnologie che possano permettere esecuzioni che mettano in risalto questo specifico aspetto del videogioco. Mi sto riferendo a UbiArt, il motore di gioco interamente creato da lui e dalle sue collaboratrici e dai suoi collaboratori per poter permettere un’animazione videoludicamente utile di disegni realizzati a mano senza alternarne il senso originale.
Uno strumento dalle potenzialità praticamente infinite e che rappresenta forse il lavoro più rilevante e coerente del progettista. Un sistema che mette in chiaro ciò che per lui vuol dire fare videogiochi, ciò che lo rappresenta di più e quel che gli riesce meglio. È un peccato che, oltre i giochi di Rayman che lo hanno coinvolto in prima persona, UbiArt sia stato applicato soltanto per altri due titoli – Valiant Hearts e Child Of Light – e Ubisoft non abbia voluto provare a sperimentare oltre con questo motore, che invece avrebbe potuto aprire porte diverse al colosso francese anziché ancorarlo a uno stile specifico e unico che forse, allo stato attuale, lo sta limitando portando i giochi delle serie più famose a somigliarsi un po’ troppo.
Per concludere: la carriera di Michel Ancel è rilevante proprio perché ci dimostra quanto sia sfaccettato e multiforme il videogioco. Perché ci dà una fotografia netta dell’importanza del visivo. Certo, quel che avete letto non è da considerare come esclusivamente incensante e atto a ritrarne un profilo esclusivamente positivo dell’artista. Non sarebbe giusto, infatti, non citare le accuse di crunch e molestie che hanno accompagnato l’abbandono delle scene del designer. Una nota scura che ci fa ricordare come la natura industriale del videogioco, spesso, porti anche chi è più insospettabile a dare per scontati approcci tossici e sbagliati, che deve servirci da monito per aspirare a nuovi corsi.