Oddworld Soulstorm segna il ritorno dell’opera di Lorne Lanning all’idea originale
Pensiamo alla serie Oddworld in tanti modi, probabilmente i più dei quali legati alla nostra infanzia e collegati ad aspetti del gioco non strettamente importanti nell’economia dello stesso. Ed è normale, dato che l’umorismo dell’opera di Lorne Lanning è forse più “memorabile” agli occhi di chi ha giocato Oddworld: Abe’s Oddysee da piccino di quanto non lo siano le fortissime tematiche sociali e politiche che il gioco porta con sé. Non aiuta, forse, neanche lo sviluppo che la serie ha avuto, tra alti e bassi che tendevano ad allontanarsi dalla visione originale dell’autore, che avrebbe dovuto costituirsi di cinque capitoli utili a raccontare la parabola di Abe e del suo popolo.
Dal mio canto ho sempre percepito un certo peso e una certa gravità nelle atmosfere nel primo capitolo. Sì, c’erano i peti e le morti grottesche a strappare un sorriso, ma il fatto che il protagonista fosse letteralmente un ingrediente della prossima ricetta vincente di una megacorporazione che ospitava le sue fabbriche in ambienti copi e soverchianti, unito a una rappresentazione dei potenti, i capitalisti, così stereotipata da rendermela leggibile – almeno in superficie – fin da piccolo mi ha sempre provocato uno stato di disagio abbastanza importante che mi ha permesso di apprezzare effettivamente l’opera solo da adulto, quando ero in grado di leggerne un po’ più chiaramente le tematiche.
E ce ne sono tantissime di tematiche in Oddworld, e le racconta direttamente Lorne Lanning nella bellissima intervista concessa ai microfoni di Ars Technica, dove parla di come la sua esperienza di vita abbia influenzato ciò che il gioco andrà ad affrontare. Non c’è una visione politica e ideologica specifica dietro, quanto un’osservazione di determinate problematiche statunitensi neanche troppo peculiari che diventano elementi cardine del racconto: le multinazionali, lo sfruttamento del lavoro, la lotta di classe e lo specismo (qui un bellissimo articolo su Argo) si mischiano con le ispirazioni tipiche della cultura popolare degli anni ’80, con Star Wars e la sua rappresentazione tribale e animistica che incontrano la voglia di raccontare attraverso il videogioco come fosse un film d’animazione.
Tutta questa lunga premessa per dirvi che ora son qui a parlarvi del sequel di Oddoworl: Abe’s Odissey. Ce ne sono stati tre, dopo l’originale, ma nessuno di quelli seguiva l’idea dell’autore, nessuno di quelli sviluppava l’epica che Lorne Lanning aveva in mente. Niente ha fino a ora continuato davvero il discorso iniziato. Oddworld Soulstorm fa proprio questo invece: inizia dalla fine del primo capitolo, già al centro di un remake negli ultimi anni, e prosegue la storia in maniera lineare, senza peraltro concludersi ma anzi aprendo a un terzo gioco, come nelle intenzioni originali di Oddworld Inhabitants.
Abe è fuggito dalla fabbrica, ha liberato i suoi simili e nelle altre fabbriche altri stanno prendendo la via della fuga. Contemporaneamente è una guida, una figura messianica. Investito di questa responsabilità il nostro protagonista che non sa esattamente cosa fare si trova schiacciato tra antiche profezie, sciamani, poteri e la semplice necessità di liberare i suoi dalla schiavitù dei Glukkon, dei malvagi padroni che hanno oppresso da sempre il suo popolo.
L’elemento aggiunto, a livello tematico, in questo secondo capitolo è la bevanda che i mudokon consumano abitualmente, gratuitamente offertagli dai loro “datori di lavoro”. Se nel primo capitolo il discorso andava nella direzione dei lavoratori trattati come carne da macello, letteralmente, in questo secondo capitolo si sposta sulla manipolazione dei lavoratori e sul controllo su di questi, esercitato attraverso la loro gratificazione che però, in definitiva, altro non è che un mezzo mantenerli all’interno del sistema.
Mentre nel primo Oddworld si ragionava sui lavoratori che altro non sono che ingranaggi della macchina, sacrificabili per il profitto e totalmente asserviti al capitale, in questo secondo gioco si parla degli strumenti che il potere utilizza per tenere i lavoratori dentro le sue maglie e le misure adottate qualora questi vogliano uscirne ribellandosi.
Oltre alle varie cutscene che tratteggiano il racconto di base questo messaggio è evidente anche attraverso alcune meccaniche di gameplay, che rimane da una parte invariato rispetto al predecessore mentre per altri aspetti rifinisce e innova le peculiarità della serie.
Mentre l’originale pesantezza del sistema di spostamento e salto era rimasta quasi invariata dall’originale PS1 al più recente New ‘n Tasty, con questo Oddworld Soulstorm gli sviluppatori compiono un passo avanti rendendo più fluida l’esplorazione e le meccaniche platform: una certa legnosità è necessaria al gameplay ed è parte della sfida, ma complessivamente il gioco è ora molto più dinamico e disponibile a un approccio platform moderno, più permissivo. L’introduzione del doppio salto fa in questo caso la maggior parte del lavoro, non obbligando il giocatore a calibrare ogni balzo al millimetro ma concedendo possibilità di manovra più ampie.
La grande innovazione però è l’introduzione di un inventario e di un sistema di crafting che, non vi nego, mi aveva fatto storcere il naso in un primo momento ma che si è rivelata perfettamente funzionale e coerente all’impianto ludico una volta provato. La natura di Oddworld è sempre stata in qualche modo quella di un puzzle platform prima di quella di un action platform, e il sistema di raccolta e combinazione di risorse non fa che rafforzare questa direzione originale, obbligando il giocatore a ragionare e spesso offrendogli più possibilità per risolvere le diverse problematiche che incontra.
Attraverso il viaggio di Abe e dei mudokon che riuscirà a salvare scopriremo che la Rapture Farm del primo capitolo è soltanto uno dei gangli di un sistema produttivo molto più strutturato, che si estende per tutte le terre che una volta furono abitate della specie del protagonista e che ai loro villaggi si è sostituito, soggiogandoli totalmente. Diventa chiaro come il discorso di Lorne Lanning prenda un respiro estremamente più ampio nell’esplorare le diverse strutture che compongono la macchina che schiavizza i mudokon, raccontandoci come il problema della schiavitù a Rapture Farm non sia un caso isolato ma un piano di segregazione ampio e soprattutto pensato precisamente per aumentare la produzione.
Salveremo mudokon anche a centinaia, in sezioni forse un filo frustranti durante le quali vedremo orde di fratelli di Abe cercare di fuggire in massa sotto i colpi di mitra. Acquisiremo poteri anche attraverso il salvataggio degli altri schiavi, e soprattutto riusciremo ad accedere alle ultime aree del gioco soltanto salvando una buona quantità di mudokon, così come era nel primo capitolo. C’è quindi ancora una volta una buona coerenza narrativa e ludica, per cui solo l’unione degli ultimi può fare la forza e l’unica arma di Abe è ancora una volta l’intelletto.
Il balzo tecnologico poi aiuta molto la messa in scena, in continuità con l’idea iniziale dell’autore di portare un film in CGI all’interno dei videogiochi. Alcuni dettagli se osservati da vicino prestano il fianco a critiche, ma il colpo d’occhio complessivo è d’impatto, e la regia sfrutta al massimo la struttura 2.5D di Oddworld: Soulstorm per offrire scorci evocativi, utili a costruire il mondo di Oddworld, ancora una volta estremamente affascinante nelle sue radici tribali che guardano ai nativi americani e nei suoi riferimenti religiosi che richiamano alle grandi religioni monoteiste.
In definitiva Oddworld: Soulstorm è un po’ l’Oddworld 2 che sarebbe sempre dovuto essere, non solo in continuità con il racconto iniziato su Playstation 1 ma anche in grado di sviluppare ulteriormente le tematiche già aperte, evidentemente ancora attuali e trattate con ottima lucidità e ben amalgamate alle meccaniche di gioco. Questa volta, speriamo di finire la pentalogia dopo l’uscita del gioco nei negozi fisici il 6 luglio!