Paradise Lost è una piccola produzione polacca che racconta di Szymon, dodicenne alla ricerca di una figura misteriosa dentro un vecchio bunker nazista abbandonato
Ci sono giochi che esistono con il solo scopo di raccontare una storia. Una bella storia. È il caso di Paradise Lost, walking simulator sviluppato da PolyAmorous e pubblicato da All in! Games su PC, Nintendo Switch, PlayStation 5 e Xbox One X|S. Una piccola produzione che si affida esclusivamente alla sua trama e alle sue atmosfere per convincerci ad arrivare fino alla fine e dire “ne è valsa la pena”. Perché Paradise Lost non osa con il linguaggio videoludico – o almeno non più di quanto visto con Gone Home nel 2013 – ma si basa su una struttura lineare che però a conti fatti funziona.
Entrando più nel dettaglio, Paradise Lost racconta di Szymon, dodicenne da poco orfano di madre. Dopo un lungo cammino tra le lande innevate, riesce a raggiungere un vecchio bunker nazista. Il suo arrivo in quel luogo non è casuale: lì dovrebbe trovarsi un uomo, lo stesso ritratto in una foto con la madre. Siamo nella Polonia del 1980. L’Europa è stata devastata da un bombardamento atomico da parte dei nazisti, che hanno vinto la Seconda guerra mondiale. È in questa ucronia retrofuturistica che si snocciola l’avventura del giovane Szymon.
All’inizio non è semplice empatizzare con lui. È raro sentire la sua voce, se non durante i flashback con la madre. L’unica cosa che percepiamo di lui sono i suoi passi lenti, pesanti, ma ritmati, che rimbombano nel bunker sotterraneo. L’ambientazione di Paradise Lost è molto affascinante: è facile sollevare la testa per saggiare l’incredibile profondità in cui si trova la struttura. Che poi struttura non è nemmeno la parola adatta: si tratta di una vera e propria città sotterranea, nata per preservare il meglio della società tedesca. Ma dietro allo splendore dei suoi edifici di gusto nordeuropeo, si celano inquietanti esperimenti, che rimandano comunque ad alcuni aspetti noti dell’operato nazista.
È con il supporto di una misteriosa ragazza che impariamo a conoscere davvero Szymon e ad immergerci nell’atmosfera desolante di Paradise Lost. Passo dopo passo, mini-puzzle dopo mini-puzzle, scopriamo storie di disumanità, di fanatismo, di speranza, attraverso registratori, biglietti, lettere degli abitanti scomparsi. Le parentesi narrative sono tante, per poi confluire in un duplice finale veramente forte, quasi da schiaffi.
Uno degli aspetti centrali di Paradise Lost è l’identità polacca. PolyAmorous esprime la propria cultura attraverso una forte componente folkloristica. La mitologia del popolo slavo gioca infatti un ruolo fondamentale nell’arco narrativo. Un particolare mix tra distopia e mito che rende eclettica la natura del titolo. La Polonia prende vividezza anche attraverso il comparto audio e stilistico di Paradise Lost. Partendo dal primo, è veramente piacevole sentire Szymon pronunciare parole in polacco al posto del classico inglese (che comunque rappresenta il 95% del doppiaggio e dei testi) quando è travolto dalle emozioni.
Stilisticamente, accanto ad alcune ispirazioni che ricordano Fallout e BioShock, Paradise Lost presenta quegli ambienti chiusi e tetri, quella predominanza di grigi e marroni, quell’alone che dona inquietudine, già visti in altre produzioni polacche come DARQ di Unfold Games, The Medium di Bloober Team e This War of Mine di 11 bit studio, consolidando un’estetica sempre più tipica nell’immaginario videoludico, soprattutto nel genere horror.
Non a caso, sonoro e stile servono a evidenziare questo aspetto di Paradise Lost. Appena messo il primo piede nel bunker, veniamo sovrastati dall’oscurità e dal silenzio, spezzato esclusivamente dai suoni ambientali, tra cui i passi e i sospiri pesanti di Szymon. Una scelta voluta quella di incentrare l’audio sugli effetti sonori, volta a farci stare sempre sul chi va là. Graficamente comunque si notano i limiti da piccola produzione, tra elementi decorativi ripetuti nel corso dell’avventura e texture semplici. Ma non è da Paradise Lost che ci aspettiamo la next-gen, quindi va bene chiudere un occhio, anche perché il titolo scorre tranquillamente.
Dopo quanto detto, non resta quindi che vivere appieno la storia di Paradise Lost, perché è quello il suo obiettivo. La partenza lenta, proprio come i passi del suo protagonista, svela a poco a poco dei risvolti sì intriganti e inquietanti, ma che soprattutto danno voce, sotto forma di finzione, a fenomeni del passato da una lenta diversa, che ribadisce i mali degli -ismi che ancora oggi rischiano di danneggiarci come collettività.