Torna in libreria Non mi uccidere di Chiara Palazzolo, romanzo gotico italiano del 2005 che seppe anticipare i trend ed evidenziarne le criticità
Mirta ha diciannove anni, studia Lettere a Perugia e ha lasciato il paesino in cui abitava con la sua famiglia per vivere con due amiche in una mansardina in città. Mirta ha un fidanzato, Robin, che ha dieci anni più di lei, una galleria d’arte, e una forte dipendenza dall’eroina. Una notte, in auto fuori da una discarica, Robin pianta nel braccio di Mirta la siringa che la porterà all’overdose e alla morte – stesso epilogo che aspetta il ragazzo.
Quando iniziamo a leggere Non mi uccidere, romanzo gotico ambientato alle pendici del Subasio – a riprova che, sì, si può fare della buonissima letteratura del fantastico in Italia – Mirta e Robin hanno già lasciato questo mondo e li conosciamo attraverso le voci di chi resta, raccolte attorno alle fosse che ospiteranno per sempre i corpi dei due amanti – nella vita e nella morte. Ci rendiamo così conto subito di quanto Chiara Palazzolo – autrice siciliana trapiantata a Roma, prematuramente scomparsa nel 2012 – sovverta l’ordine di un genere che si stava iniziando ad affacciare sul panorama editoriale: la storia si spalanca davanti al lettore come una voragine scavata di fresco nella terra e i suoi protagonisti sono già morti. L’inizio è una fine e viene da domandarsi cos’altro ci sia da raccontare, se già conosciamo il drammatico epilogo di questa versione umbra di Giulietta e Romeo.
“Queste gioie violente hanno fine violenta”, la descrizione che dà Frate Lorenzo della storia dei due sfortunati amanti di Verona è applicabile alla perfezione anche a Mirta e Robin, ma non saranno i protagonisti di Non mi uccidere a restare indissolubilmente legati a questa citazione shakespeariana, seppur – in un cortocircuito giornalistico di banalità e pigrizia – tutto finirà per essere collegato.
Se nel 2005 in Italia Mirta esce dalla tomba spingendo via il legno e la terra come una coperta pesante, nello stesso anno, negli Stati Uniti, Isabella Swan si trasferisce nella plumbea Forks, roccaforte della famiglia Cullen, nel primo capitolo della saga di Twilight – che porta in esergo, esatto, proprio la famosa (o diventata tale dopo il successo di Stephenie Meyer) citazione dalla tragedia del Bardo. Non mi uccidere e Twilight sono coetanei, perciò, ma nonostante questo sia l’unico punto di contatto tra i due romanzi, la recente trasposizione cinematografica di Non mi uccidere – (molto) liberamente tratto dal romanzo di Chiara Palazzolo – è stata salutata dalla stampa nostrana come il Twilight italiano. Ed ecco che – in un episodio crossover tra Shakespeare e Tolstoj – viene quasi da pensare che tutte le fini violente si assomiglino tra loro, almeno per il giornalismo italiano.
Quando Chiara Palazzolo scrive Non mi uccidere, l’urban fantasy non è ancora diventato il fenomeno editoriale che avrebbe fagocitato l’attenzione dell’intera fascia adolescenziale da lì a poco tempo, quel trend in grado di far vendere qualsiasi testo, purché confezionato con una copertina con zanne, frutti, sangue e farfalle. In Italia, nel momento in cui viene pubblicato Non mi uccidere, il tornado Tre metri sopra il cielo si è appena abbattuto su cinema e librerie, mentre due anni prima, nel 2003, l’opinione pubblica era stata scossa da Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire. In questo humus culturale Chiara Palazzolo propone al pubblico young adult una storia gotica, una storia di morte, di rabbia, di assenza. Una storia che scardina i cliché di un genere non ancora – ai tempi – codificato, ma che vede l’amore essere sempre più forte della morte.
Mirta, perciò, torna dalla morte, la scalcia via come si fa con le coperte troppe pesanti quando arriva la primavera, ma non trova Robin ad attenderla come le aveva promesso. Robin, in questo primo capitolo della trilogia di Mirta/Luna, è un vuoto sordo, è un’assenza che provoca dolore come un arto fantasma, è l’ultimo brandello di umanità a cui Mirta resta caparbiamente attaccata per non permettere a Luna – Luna che vive dentro di lei, Luna che ha capito tutto, Luna che abbraccia la morte e abbandona il passato – di prendere il sopravvento. Se Mirta, anche nella morte resta la Mirtina Pallina che si lasciava rimboccare ogni sera le coperte dal padre e si lasciava bucare da Robin per non perderlo nella droga, Luna incarna tutta la rabbia che Mirta ha provato in vita, quella rabbia “verso sua madre. Verso il suo paese. Verso tutto e tutti. Invelenita al punto da consegnarsi anima e corpo a Robin. Da affidarsi all’odio di Robin, come passaporto per l’eternità” che l’ha trascinata fuori dalla tomba. “La volontà è più forte della morte e l’amore è volontà”, dice infatti Robin a Mirta prima di prometterle che ritorneranno, ma quello che Robin forse non sa è che ancora più forte dell’amore è la rabbia.
Mirta torna in vita e impara di nuovo a stare al mondo come sopramorta. Si nutre di carne umana, più vicina all’iconografia dello zombie che a quella del vampiro, prova solitudine, abbandono, si sente persa, senza il suo Robin, e cerca altre figure di riferimento maschili a cui sostituire gli uomini che l’hanno abbandonata – il padre traditore, l’amante bugiardo che aveva promesso di ritornare e l’ha lasciata sola in mezzo ai boschi, neonata e vulnerabile. Mirta resta ancorata alla società patriarcale di cui ha fatto esperienza in vita mentre Luna si spoglia degli affetti e affronta un percorso di emancipazione dalla vita, perde fiducia negli uomini, si riscopre sufficiente a se stessa e trova nella sorellanza con Sara un motivo per sopravvivere – o sopramorire – che non sia l’astratto amore delle storie paranormal romance angloamericane che a breve avrebbero colonizzato gli scaffali delle librerie italiane. Come ha sottolineato la scrittrice Loredana Lipperini in un evento online dedicato a questo romanzo: “[le personagge di Chiara Palazzolo] amano, ma la loro strada la trovano altrove.”
Il percorso di Mirta in Non mi uccidere è credibile perché lento, frammentato, come lento e frammentato è il recupero delle capacità cognitive della ragazza appena uscita dalla tomba: la scrittura di Chiara Palazzolo riesce a comunicare non solo con le parole, ma anche con le pause, la punteggiatura; il monologo/dialogo di Mirta/Luna diventa un bildungsroman dell’anima – ferita, confusa – e del corpo – esigente, forte eppure bisognoso di cure, di cibo.
Nel percorso di Mirta/Luna risiede l’unicità di Non mi uccidere, romanzo in cui si indaga la differenza tra l’amore e il bisogno di avere accanto a sé la persona amata, in cui la glamourizzazione dell’amare da morire viene rifiutata dalla stessa protagonista (“non doveva portarmi alla discarica […] non doveva farmi nulla. Doveva solo lasciarmi andare”), un romanzo che è un percorso di indipendenza (e qua le storie di zombie si riconfermano perfetto veicolo di metafore) e che per fortuna è tornato in libreria, pronto per farsi scoprire da nuove generazioni adolescenti. Un romanzo, insomma, che non ha niente a che vedere con Twilight. E per fortuna.