Sarah Paulson e Kiera Allen sono le protagoniste di un film thriller-horror che si apre e chiude su se stesso, non dando grande brivido, ma svolgendo comunque il proprio dovere
Le mamme nell’audiovisivo non sono mai state così protettive. Se eravate convinti che i genitori non vedessero l’ora di cacciare di casa i propri figli, o se comunque è stata sempre questa l’impressione che avete avuto da parte dei vostri, il cinema e le serie tv americane ci hanno rivelato che, in verità, la paura del nido vuoto porta a soluzioni assai invalidanti. Quelle di madri che scambiano il dover preservare i propri pargoli con un lento ed estenuante avvelenamento.
È stata la televisione a descrivere rapporti altamente tossici che mettono in una posizione di svantaggio i figli, convinti di poter sempre affidarsi al buonsenso dei propri cari, presto disillusi da un potere manipolatorio che in realtà può provenire anche dai posti ritenuti più sicuri. Filone che prosegue con insistenza anche nella cinematografia in una chiave thriller/horror, che si avvale del secondo lungometraggio del regista e sceneggiatore Aneesh Chaganty, di ritorno ad atmosfere ad alta tensione seppur meno originali del suo debutto Searching.
È Run l’opera che segue la scia spalancatasi nella serialità con Sharp Objects, The Politician e The Act, esasperazione del già asfissiante rapporto tra Eddie Kaspbrak e sua madre nel classico romanzesco It, per un Stephen King che Chaganty richiama altresì nel suo film.
La compostezza circolare di Run
È l’immobilità lo svantaggio tra Diane Sherman (Sarah Paulson) e sua figlia Chloe (Kiera Allen). Le gambe di una giovane che non le permettono di camminare e la costringono a dipendere completamente dalla madre. Se, però, in Misery non deve morire Annie Wilkes era fautrice stessa della rottura dei legamenti dello scrittore Paul Sheldon, in Run sono una serie di svariate malattie a complicare l’esistenza della giovane, forte comunque nello spirito nonostante medicine e rituali quotidiani, pronta all’indipendenza che finalmente le donerà il college. Un futuro che Diane all’apparenza sostiene con fervore, finché delle piccole pillole verdi non faranno venire qualche dubbio alla ragazza.
Senso di vulnerabilità e impossibilità nel poter sfuggire: questo richiama alla mente il film del 1990 di Rob Reiner che però, rispetto a Run, ha saputo stagliarsi nell’immaginario come un vero e proprio cult. E per quanto le citazioni a King continuino con l’inserimento della cittadina di Derry nominata tramite un servizio telefonico, all’opera di Aneesh Chaganty manca quel fermento che le grandi pellicole, soprattutto quelle tratte dai racconti dello scrittore, sanno donare. Una distensione che non si limita semplicemente, come in Run, al proprio tempo del racconto, ma fuoriesce accompagnando lo spettatore anche aldilà della sala cinematografica.
La croce e la delizia di Run è esattamente in questa sua sorta di compostezza. I meccanismi della storia vanno azionandosi e funzionando come una scatola ad alta orologeria, i quali indicano al loro interno uno svolgimento cristallino del lavoro di Chaganty scritto assieme a Sev Ohanian, confezionando una struttura limpida e fabbricata perfettamente su misura. Questo contenitore però sembra poter sottostare solamente a delle regole predefinite ovviamente pianificate fin dall’inizio, che non apportano così al film nessun tipo di sconvolgimento o alcuna necessaria scossa in grado di scuotere interamente lo spettatore.
Un film chiaro sia nelle potenzialità che nei punti deboli
Run è così un thriller minuto, che si apre e si chiude su se stesso. Un racconto esiguo, che riesce a toccare tutti i suoi punti di svolta posti come precisi cardini da rispettare, permettendo al pubblico di assistere ad un’opera che risulta assolutamente compiuta e di cui si apprezza dunque l’autosufficienza. Status che comporta naturalmente logiche e conseguenze che, se si andassero ad analizzare con perizia e solerzia, potrebbero stridere nel momento in cui si va a rapportarle alla realtà esterna.
Ma, concentrandosi puramente sul proprio contenuto e trattando con meticolosità il proprio materiale per quanto modesto, il film si scagiona da qualsiasi acre critica, svelando tutte le proprie potenzialità e così anche i più evidenti tasti deboli.
Focalizzandosi sul personaggio di Chloe, facendo dell’attrice Kiera Allen il centro non solo della narrazione, ma delle stesse inquadrature che spesso la ragazza vive in solitaria per un rapporto che diventa diretto con la camera, Run fa della Sindrome di Münchhausen per procura un incubo da cui voler scappare insieme alla protagonista.
Un’opera a due in cui Sarah Paulson e la medesima Allen fanno da collante per un film che assembla bene i propri tasselli, concludendosi con il pizzico di malignità giusta. Una pellicola che sa cosa fare e che segue pedissequamente i passaggi più adatti, non potendo magari elettrizzare, offrendosi però allo spettatore con l’onestà di un thriller completo e organico.
Run è al cinema dal 10 giugno 2021.