Un’analisi su Spec Ops: The Line e il videogioco post 11 settembre
Attenzione, questo testo è stato concepito per essere fruito sotto forma audiovisiva. L’articolo che segue è un adattamento del video analisi di Spec Ops The Line uscito sul canale YouTube di Glitch il 01/06/2021.
A partire dall’11 settembre 2001 e dall’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003, il modo in cui i media occidentali hanno rappresentato la guerra è cambiato radicalmente. Tra tutti, il cinema statunitense è quello che generalmente popola maggiormente il nostro immaginario. Oltre alla democrazia, gli USA esportano in giro per il mondo un quantitativo di oggetti culturali difficilmente eguagliabile da qualsiasi altro paese. Mentre altre nazioni vengono bombardate letteralmente di esplosivi, la nostra società ha subito e subisce ancora un bombardamento mediatico hollywoodiano, spesso figlio del suo tempo sia nella messa in scena che nei valori narrati. Il cinema, linguaggio principe del ‘900, è infatti in grado di rappresentare e al contempo influenzare il sentimento delle masse.
L’esempio temporalmente più vicino a noi è il mutamento del disaster movie statunitense. Se negli anni ’90 film come Armageddon o Indipendence Day mostravano l’evento catastrofico non come qualcosa di spaventoso, ma come un evento spettacolare, dopo l’11 settembre il modo di rappresentare i “disastri” è cambiato. Probabilmente, a seguito dell’attacco terroristico di New York il distacco emotivo verso la catastrofe non era più possibile, poiché l’esperienza diretta e vissuta era inscindibile da quella fittizia su schermo.
Gli USA sono stati colpiti nel profondo, e questa sofferenza si è materializzata nel cinema hollywoodiano degli anni ‘2000, immediatamente dopo il tragico evento. Ad esempio, Cloverfield di Matt Reves mostra un’invasione aliena raccontata come se fosse ripresa con una telecamera portatile, fornendo un collegamento visivo più o meno diretto alle centinaia di testimonianze amatoriali dell’11 settembre.
Anche La guerra dei mondi di Steven Spielberg sviluppa il proprio dramma attorno al tipo di sofferenza collettiva che solo dieci anni prima il cinema americano non conosceva, o sembrava non riconoscere. In così poco tempo siamo passati da Will Smith che prende a pugni un alieno in Indipendece Day a Tom Cruise che si toglie di dosso le ceneri di altre persone nell’opera di Spielberg.
Come già detto, come avviene per tutte le industrie culturali, hollywood produce oggetti culturali che sono inevitabilmente figli del loro tempo. Ma quello del lutto collettivo non era il solo sentimento che maturava negli USA di Bush: serpeggiavano anche rabbia e voglia di vendetta. La guerra d’Iraq del 2003, che venne considerata legittima da enormi fette dell’elettorato statunitense, probabilmente vittime di una devastante propaganda di terrore orchestrata dai media televisivi, è a mio parere il perfetto esempio di come una furia vendicativa possa accecare un popolo intero. Fahrenheit 9/11 di Michael Moore ci mostra in modo chiaro e diretto come il cosiddetto quarto potere sia in grado di influenzare le masse in maniera tossica e disarmante.
Ma torniamo un attimo indietro, e più precisamente agli anni 70. Con la nascita della New Hollywood, i produttori americani iniziarono a dare più libertà creativa ai propri autori. Quando questi iniziarono a esplorare il film di genere bellico, firmarono alcune delle pellicole poi entrate nella storia del cinema. Ad esempio, sia Il cacciatore che Apocalypse Now sono rappresentativi di un sentimento generazionale di spaesamento di fronte alla devastazione. La guerra del Vietnam ripresa da Cimino e Coppola appare cruda, caotica, priva di qualsiasi senso di eroismo e redenzione, almeno per chi la combatteva davvero. Un orrore che nasce anche dall’incomprensione delle motivazioni belliche, a fronte di una guerra scatenata in un paese così distante.
Un sentimento antimilitarista nei confronti di una guerra inutile e contro un nemico innocente: questo tema ritorna al cinema quando gli USA, agli inizi del nuovo millennio, si ritrovano a invadere parte del Medio Oriente. Il vero motivo dell’invasione non erano certo le fantomatiche armi di distruzione di massa poi mai ritrovate, ma spodestare Saddam Hussein e prendere il controllo dei pozzi petroliferi iraqueni. Sotto quest’ottica, anche il lavoro della regista Kathryn Bigelow si allontana da qualsiasi concezione patriottica e adulatrice della guerra: le sue pellicole mostrano soldati e agenti ormai incapaci di distinguere il giusto dallo sbagliato, che guardano alla tortura come a un atto burocratico qualsiasi. Per il reduce di guerra, a volte la vita in Iraq rimane l’unica esistenza concepibile, una volta finito il mandato.
Ma ovviamente anche in quegli anni non esiste solo il cinema come mezzo per rappresentare la realtà. A differenza dei tempi del Vietnam, il linguaggio cinematografico è stato dapprima accostato, e poi probabilmente superato da quello videoludico, almeno per quanto riguarda l’utilizzo di scenari bellici.
Nel corso degli ultimi vent’anni, lo sparatutto è diventato uno dei protagonisti assoluti della rappresentazione della guerra. L’esercito americano lo usa ormai da decenni come strumento di reclutamento, ed è facile capirne il motivo: i videogiochi ci fanno sentire protagonisti e sono anche immediati, ma al contempo, per come sono resi, sono lontanissimi dalla rappresentazione reale e devastante della guerra. Ma questo è un problema espressivo, non produttivo: oggi bisogna sapere “vendere” la guerra alle possibili reclute o ai consumatori, mostrandola sì violenta e caotica, ma anche divertente, formativa ed eroica.
A differenza del cinema, che difficilmente associa componenti ludiche alla guerra, il videogioco bellico associa all’esperienza del giocatore lo stato estasiato ed esaltante della vittoria, che è tradizionale del settore videoludico.
George Orwell una volta scrisse: “Non si tratta di stabilire se la guerra sia legittima o se, invece, non lo sia. La vittoria non è possibile. La guerra non è fatta per essere vinta, è fatta per non finire mai.”
Tutto ciò ovviamente si contrappone alla tradizione del videogioco sparatutto, che prevede una vittoria grazie alla quale il giocatore si senta un eroe. I soldati sono tutti eroi, i videogiocatori sono tutti eroi… la guerra è eroica.
Spec Ops: The Line – Il cuore di tenebra dei videogiochi
Nel 2012 esce Spec Ops The Line, sparatutto in terza persona sviluppato da Yager Development e pubblicato da 2K Games. Il titolo si distacca completamente dalla serie originale di Spec Ops, sparatutto tattici nati alla fine degli anni 90, per prendere una direzione completamente opposta rispetto al tipico prodotto semi-propagandistico a cui siamo abituati.
All’inizio di Spec Ops The Line ci ritroviamo in una Dubai devastata dalle tempeste di sabbia. Di ritorno dall’Afghanistan, il pluridecorato colonnello dell’US Army John Konrad offre sé stesso e il suo 33º battaglione per recarsi sul posto e aiutare i civili a evacuare. Sorprendentemente, il colonnello disubbidisce agli ordini quando gli viene comandato di lasciare la città, e i militari rimangono dunque a Dubai, diventando disertori pur di non abbandonare i civili alla sabbia asfissiante.
Nei giorni successivi le tempeste di sabbia peggiorano ulteriormente, uccidendo la maggior parte della popolazione e finendo per ricoprire l’intera città di sabbia, distruggendo e seppellendo interi edifici. Di conseguenza, durante le tempeste Dubai viene inghiottita da un muro di sabbia, rendendo impossibile il volo, le trasmissioni radio ed ogni tipo di ricognizione satellitare. Durante i suddetti eventi, il 33° ha instaurato la legge marziale facendo, però, molta fatica a mantenere l’ordine, a causa delle forti tempeste di sabbia, le continue rivolte e la scarsità delle risorse a disposizione sia per l’esercito, sia per la popolazione locale.
Sei mesi dopo vestiamo i panni di Martin Walker, capitano della squadra Delta, un trio di soldati delle forze speciali. La missione è semplice: portare a termine una ricognizione, verificare se ci sono sopravvissuti e, infine, contattare il comando per l’estrazione.
Poco dopo essere arrivati in città, per una serie di equivoci e fraintendimenti iniziano degli scontri armati tra la squadra Delta e il 33º battaglione, che in poco tempo esplodono in un vero e proprio conflitto. Di conseguenza, la missione cambia: la squadra Delta inizia la ricerca del colonnello Konrad, per capire veramente cosa sta succedendo a Dubai.
Spec Ops The Line si distingue dagli altri giochi del genere in primis per il tipo di nemici che ci porta ad affrontare. Da Call of Duty Modern Warfare in poi, lo sparatutto videoludico ci ha spesso lanciato contro eserciti di soldati russi o di terroristi talebani. L’ambientazione nel Medio Oriente è divenuta molto comune, così come anche la rappresentazione del massacro indiscriminato della sua popolazione. Anche i civili rischiano di diventare carne da macello per il videogiocatore, ma su quello torniamo dopo.
In Spec Ops The Line lo scontro è tra americano e americano, tra due fazioni dello stesso esercito. All’inizio uccidiamo i nostri commilitoni con riluttanza, ma poi man mano con sempre più foga. Non c’è altra scelta d’altronde. I protagonisti si giustificano dicendo che è legittima difesa, che il 33º ha disertato e che quindi è triste ma giusto sparare al traditore.
Finché non si arriva al punto di svolta del gioco…
Giocatori costretti alla violenza
Attenzione, da questo momento in poi ci saranno spoiler pesanti sulla storia del gioco.
Il fosforo bianco è un’arma chimica tossica e acida in grado di distruggere completamente e in poco tempo qualsiasi tessuto organico, ed è utilizzata principalmente dall’esercito americano e israeliano.
In Call of Duty Modern Warfare del 2019, il fosforo bianco appare come una ricompensa per le serie di uccisioni ottenute nella modalità multiplayer. Il gioco dunque premia il giocatore permettendogli di sciogliere i propri avversari con un’arma chimica.
A metà di Spec Ops The Line, i protagonisti si ritrovano in una situazione dove si vedono emmh.. “costretti”… a usare il fosforo bianco. Davanti a loro c’è un esercito, e devono superarlo ad ogni costo per riuscire ad arrivare dall’altra parte. Non c’è scelta per il giocatore, l’unico modo per andare avanti è bruciare i propri nemici.
Questo è il punto della storia dove la prospettiva tradizionale dello sparatutto bellico si ribalta: il fosforo bianco finisce per uccidere un gruppo di civili che stava venendo evacuato dal 33 º battaglione. Per tutto il gioco infatti non abbiamo fatto altro che mettere i bastoni tra le ruote ai soldati che volevano semplicemente salvare vite umane. Spec Ops The Line ci mette nei panni di un criminale di guerra e ci fa sentire il peso delle nostre azioni. Da quel momento in poi non siamo più gli eroi della storia, non c’è giustificazione che tenga, siamo i cattivi.
Tradizionalmente, il videogioco di grande budget narrativo usa le cinematiche come ricompensa dell’agire di chi gioca. In Spec Ops The Line, le parti filmiche diventano uno strumento di critica, la sintesi delle conseguenze delle nostre azioni.
Subito dopo questa scena il gioco ci affronta con un’altra scena di gameplay dove dobbiamo combattere il battaglione, che ci assale con frasi piene di rabbia, mentre ci chiede cosa diavolo abbiamo fatto. È questo il momento in cui si mette pausa e ci si chiede: ma a cosa sto giocando?
Spec Ops The Line è infatti un gioco che nasconde dietro alla sua facciata da sparatutto in terza persona una più profonda analisi degli orrori della guerra. Ispirato al racconto Cuore di tenebra di Joseph Conrad, autore che condivide lo stesso nome con il colonnello del 33º, il gioco di Yager diventa metafora di qualsiasi conflitto nel corso della storia. Come in Apocalypse Now, opera anch’essa ispirata dal racconto di Conrad, il protagonista segue una spirale discendente che lo porta a perdere la morale, e quindi il senno.
A differenza del racconto scritto e dell’opera cinematografica, i temi di Conrad vengono qui esplorati attraverso il medium videoludico, sfruttando il contesto post bellico iraqueno. Interpretiamo dei militari alla deriva che non capiscono più il motivo per cui combattono. Si sparano tra loro perché è quello che gli è sempre stato insegnato, perché non conoscono altro. Esattamente come il videogiocatore medio che negli anni 2000 è passato da un superficiale scontro bellico all’altro.
Dubai è il perfetto scenario di questo tragico racconto. In un certo senso, sembra quasi voler parodizzare il tipo di ambientazione metropolitana tipica del videogioco bellico dell’epoca. Da Call of duty a Battlefield passando per Crysys, la guerra cittadina era divenuta una vera e propria tradizione dell’offerta videoludica, reminiscenza ancora una volta degli attacchi terroristici dell’11 settembre, che avevano reso domestici scenari prima solo esotici. Diventa quindi comune mostrare Washington in fiamme e la Tour Eiffel distrutta, anche solo per soddisfare un macabro senso dello spettacolo. Le tempeste di sabbia di Dubai bloccano l’accesso alla città, creando un microcosmo dove tutto è possibile: regna la legge della giungla dove a sopravvivere è il più forte di tutti.
Soldati americani che si scontrano tra loro su suolo straniero senza saperne il motivo. L’opera di Yager mostra le contraddizioni di una guerra combattuta su dei pretesti che ormai nessuno ricorda. La missione della squadra Delta era infatti una sola: portare a termine una ricognizione, verificare se ci fossero sopravvissuti e, infine, contattare il comando per l’estrazione.
Questi semplici ordini sbiadiscono nel nulla una volta che ci ritroviamo nel bel mezzo di uno scontro. La trama di Spec Ops The Line è infatti volutamente complicata da capire: fatti importanti della storia vengono narrati dai personaggi mentre si è impegnati a sparare, ed è quindi difficile fare attenzione a quello che succede.
La seconda parte del gioco si basa infatti tutta sul confermare il ribaltamento della prospettiva tradizionale dello sparatutto. Spec Ops cerca di far capire al giocatore il motivo di così tanta violenza. Spoiler: non c’è.
“Da dove viene tutta questa violenza? Saranno i videogiochi? Scommetto che sono i videogiochi.”
In un’altra scena emblematica, uno dei nostri sottoufficiali, il sergente Lugo, viene catturato e ucciso dai civili di Dubai, stanchi di una guerra che li sta massacrando. Prima di questo momento, la squadra Delta ha infatti causato l’esplosione della riserva d’acqua, condannando l’intera città. La rabbia dei cittadini è dunque comprensibile.
Ma prima parliamo di un’altra scena in un altro gioco. In una missione di Call of Duty Modern Warfare 2 interpretiamo un agente infiltrato in un gruppo terroristico russo. La missione “No Russo” è ormai famigerata: la scena si apre con il giocatore che arriva in aeroporto con armi spianate e inizia a sparare sulla folla. Lo scopo di questa scena è quello di mostrare quanto il cattivo del gioco, Makarov, sia veramente cattivo. Per convogliare questo messaggio, Call of duty permette ai propri giocatori di massacrare decine di civili e poliziotti. Il gioco in realtà permette anche di saltare questa scena, che per alcuni potrebbe risultare offensiva o pesante, o in ogni caso non si è obbligati a sparare sulla folla. Ma il solo fatto che si possa manifestare così tanta violenza gratuita, la dice lunga sugli obiettivi del gioco.
Tecnicamente, ci troviamo nello stesso scenario in Spec Ops The Line: siamo circondati da civili che hanno appena ucciso uno dei nostri compagni di viaggio. Ci bloccano la strada e non possiamo proseguire. Non c’è scelta, bisogna sparare, anche in questo caso, sulla folla di civili disarmati.
Ancora una volta si mette pausa e ci si chiede: ma cosa sto facendo?
Eccetto che ho appena mentito: si possono risparmiare i civili sparando colpi d’avvertimento in aria che li portano alla fuga, ma il gioco non ce lo dice espressamente. Il sottoposto rimasto in vita ci chiede più volte il permesso di sparare sulla folla, e per retaggio, per tradizione, per abitudine da sparatutto ci lasciamo andare. La violenza è facile e immediata, ma a differenza della missione “No Russo” non è gratuita o fine a sé stessa. Arriva in un punto del gioco dove si è ormai superata quella sottile linea, il “the line” del titolo, che nessun uomo dovrebbe valicare. Non a caso se si sparerà sulla folla, il gioco ci darà un trofeo intitolato “supera il limite”. Una ricompensa, sì, ma per cosa? Ho vinto? Ho vinto il gioco?
La realtà è che Spec Ops The Line non è fatto per essere vinto. La vittoria non è possibile, perché il solo giocare al gioco significa ammettere di star perdendo. La missione originale era quella di verificare se ci fossero sopravvissuti e poi tornare indietro per chiamare la cavalleria. E il gioco ce lo ricorda anche direttamente, mostrandoci durante le schermate di caricamento frasi del tipo “L’esercito statunitense condanna l’uccisione di combattenti non armati. Ma tutto questo non è reale quindi cosa ti importa?” o “Ti senti già come un eroe?”.
In questo modo Spec Ops riconosce direttamente un ruolo al giocatore in tutto questo massacro, tramite elementi extradiegetici o metanarrativi. Durante i titoli di testa, ad esempio, il nostro nome utente apparirà su schermo con il titolo di “ospite d’onore”, facendoci subito sentire non solo osservati, ma anche parte integrante di quello che sta per avvenire. Pure il prologo del gioco, che altro non è che un flashfoward di una fase successiva della storia, viene riconosciuto dal protagonista che dice “No aspetta, questo lo abbiamo già fatto”.
I personaggi cercano per tutto il tempo di giustificarsi dicendo che non hanno avuto scelta, quando invece non è affatto così. Il conflitto è ormai una droga, e il bisogno del videogiocatore di giocare a fare la guerra è una vera e propria dipendenza. La scelta infatti c’era. Invece di scegliere tra chi merita la morte tra due prigionieri, bisognava andarsene. Invece di sparare sulla folla, bisognava trattenersi. Invece di lanciare il fosforo bianco bisognava spegnere la console e andare a fare altro. L’unico modo in cui Martin Walker e la squadra Delta avrebbero potuto vincere, è se si fossero trattenuti dal loro bisogno di fare del male. L’unico modo che noi giocatori abbiamo per vincere davvero il gioco è non giocare.
Nel finale il protagonista è rimasto ormai da solo, in una città sepolta non solo dalla sabbia ma anche dai cadaveri dei suoi nemici. I rimanenti soldati si arrendono a lui. Ci dicono: “Complimenti signore, ormai Dubai è sua”, un modo diretto degli sviluppatori per congratularsi con noi e dirci: “Complimenti, hai vinto!”.
All’ultimo piano dell’edificio più alto di Dubai ci aspetta il cadavere di Konrad, morto chissà quanto tempo prima. Parte della storia, Walker l’ha vissuta nella sua testa, ma questo non lo rende meno innocente.
Dall’11 settembre all’invasione in Iraq, un’intera generazione americana si è ritrovata costantemente costretta a immaginare la guerra, sia in casa che in altri paesi. Sulla base di ciò che ci raccontano certo cinema e certo videogioco, gli Stati Uniti sembrano non conoscere altro: solo guerra e violenza. La lingua delle bombe.
Spec Ops The Line ritrae uno stato caduto in disgrazia, e lo fa facendo uno spietato commento anche della dimensione videoludica della guerra. Punta il dito contro il giocatore e gli addossa parte della responsabilità. Critica anche i propri colleghi, che ancora oggi producono giochi con la possibilità di sparare ai bambini nelle culle senza nessun motivo apparente.
Spec Ops The Line è un’opera profonda, che ribalta la concezione che chi lo gioca ha dei videogiochi bellici, e di come molto spesso la violenza venga rappresentata con fin troppa facilità. Ci guarda dentro, e ciò che trova è un cuore di tenebra.
I finali del gioco sono numerosi. Possiamo accettare la realtà e morire, oppure aggrapparci alla vita e aspettare i soccorsi. Nell’epilogo, quando l’esercito arriva a fare una vera evacuazione, possiamo decidere se andarcene in pace o lottare nuovamente. Una nuova sessione di gameplay, un’ultima partita. Per essere dei buoni padroni di casa.