Con Malignat possiamo tirare un sospiro di sollievo: James Wan non ha perso il suo tocco
Finalmente con Malignant, James Wan torna nel suo. Dopo un periodo in veste di produttore di pellicole dalla qualità altalenante e una breve parentesi dietro la macchina da presa di blockbuster hollywoodiani come Fast and Furios 7 e Aquaman, il regista malese (ma naturalizzato Australiano)decide di firmare soggetto e regia di un nuovo horror. E fortunatamente per i suoi fan, ma anche di tutti gli amanti del buon cinema, fa di nuovo centro.
Non svelerò nulla della trama perché attenzione, Malignant fa dell’elemento mistery un punto focale della narrazione. Non si tratta quindi di un horror classico, il film punta sul depistaggio delle aspettative del pubblico che viene messo in scena da Wan dando fondo a tutto il suo eclettismo. Il regista infatti negli anni ha ottenuto ottimi risultati con le sue pellicole toccando un po’ tutti i sottogeneri, raccontandoci di oscure dimensioni oniriche, di vendette brutali, di pupazzi indemoniati, portando alle luci della ribalta un genere come il torture porn con Saw L’enigmista; trattando con mestiere sopraffino anche l’horror paranormale di stampo classicissimo come quello della saga The Conjuring.
Se però nelle avventure dei coniugi Warren l’astuzia registica stava nello “sfottere” lo spettatore ricalibrando in maniera brillante tempi e modalità espressive di stilemi classici del genere, senza intaccare in alcun modo la struttura narrativa tipica delle storie di fantasmi e possessioni, in Malignant “l’inganno” è duplice, e comprende un evidente sforzo di modernizzazione rispetto ai canoni di genere non solo a livello stilistico ma anche di scrittura. C’è un contesto enigmatico e dei personaggi che non sappiamo bene come incastrare tra loro. Tutto parte da un prologo piuttosto scoppiettante che repentinamente introduce la misteriosissima e super inquietante figura di Gabriel, poi subito dopo la storia della protagonista Madison (la cui convincente interpretazione è di Annabelle Wallis) ci immerge in un’atmosfera tetra e drammatica, ma facilmente inquadrabile. Un marito violento, una gravidanza difficile, brutali omicidi nell’oscurità, strane visioni.
Cliché, stilemi consolidati, personaggi stereotipati. Quelli che solitamente nei film horror sono pigri espedienti per tirare avanti la baracca, si trasformano in strumenti preziosi per disinnescare tutte le intuizioni del pubblico. Furbamente Wan sa che conosciamo il linguaggio dell’horror e quindi gioca con l’ABC del genere per sorprenderci, disseminando qui e lì indizi per portarci a pensare tutto e il contrario di tutto riguardo la natura degli eventi e l’origine della minaccia.
Malignant non è un film che vuole letteralmente spaventare, non si basa sui jump scare, al punto che ad un certo punto anche l’atto dell’omicidio perde la sua valenza morbosa. Siamo completamente concentrati a capire dove si andrà a parare, la connessione e l’identità dei personaggi. Eppure vi assicuro che se lo riducessimo ai minimi termini con il senno di poi, Malignant altro non è che un thriller-slasher sorprendentemente lineare e solitamente telefonatissimo. Si tratta di un film molto consapevole dei suoi connotati creapy e implausibili, kafkiani per certi versi, e per questo non punta tanto nel creare un terrore che attinge al verosimile, ma preferisce incuriosire andando a puntellare di ambiguità assortite (e rigorosamente macabre) una sceneggiatura altrimenti basilare, cercando di essere sempre due passi in avanti rispetto alle congetture di chi guarda. Non ce la fa proprio sempre, ma quanto basta per intrigare fino alla fine. Non è poco.
Altri film horror come ad esempio La Casa delle Bambole, fanno concettualmente qualcosa di simile, ma Malignant lo fa in maniera originale, a modo suo. Senza prendere in prestito soluzioni altrui. Riuscendo tra l’altro, secondo la mia opinione, anche a creare uno dei più geniali serial killer da slasher horror mai visti a livello di presenza e suggestione. E proprio sulla suggestione lavora molto film, e questa è frutto del solito gran talento di Wan nel gestire messa in scena e regia. Abbiamo già detto quanto il film sia acutamente e volontariamente rinunciatario sul piano del jump scare, preferendo al solito salto sulla poltrona davanti ad uno specchio o un corridoio buio, la strada più difficile, creando un mood di placida ma costante follia, dando potenza alle immagini grazie a scenografie sempre ricche di macabri e ricercati dettagli, con quella fotografia che le rende vagamente opprimenti; con una regia dinamica, che sottolinea sempre i momenti più tesi e surreali con notevoli invenzioni visive ed efficaci manovre di macchina da presa, accompagnandoci senza mai annoiare verso l’exploit finale ricco d’azione in cui si vede un divertito Wan ormai a suo agio anche con il genere action dopo l’esperienza con Fast7 e Aquaman. Attenzione però: anche in questi frangenti il film rimane sempre ben ancorato alla sua dimensione surreale e grottesca, creando di fatto delle “coreografie dell’orrore” dal notevole fascino.
Alla fine tutti i puntini si uniscono e l’appagamento regna sovrano, tanto sul piano della visionaria ma coerente logica narrativa del film, quanto e soprattutto, su quello dell’intrattenimento, coadiuvato da un’estetica squisitamente gore, incorniciata dal gusto un po’ retrò del regista per le ambientazioni con un tocco di gotico e barocco, anche quando si tratta di raccontare una storia nella Seattle dei giorni nostri. Insomma, vi posso solo dire che non è il film di James Wan più spaventoso che il cineasta abbia mai realizzato e se quello che cercate è strettamente legato a questo aspetto, potreste rimanere delusi. Ma se amate l’horror in senso lato nelle sue innumerevoli forme espressive, di motivi per correre al cinema a vederlo ce ne sono comunque tanti. Fidatevi.