Q-Force è la nuova serie animata Netflix sulle missioni di un gruppo di spie LGBTQ+
L’orientamento politico di Netflix è ormai dichiarato esattamente come lo sono i protagonisti della sua nuova serie animata: in molti prodotti del colosso streaming sono presenti personaggi appartenenti alla comunità LGBTQ+, per dimostrare a essa supporto e appoggio, ma Q-Force è una serie che Netflix ha esplicitamente concepito per le persone LGBTQ+ e che è stata creata da altri membri della comunità.
Il problema, come vedremo, è che forse Q-Force è uscito con almeno 10-15 anni di ritardo, risultando ormai obsoleto e, per alcuni, forse addirittura offensivo e degradante, a dispetto del lavoro di animazione piuttosto buono svolto dallo studio Titmouse e dal cast coinvolto.
La dura vita di uno 007 gay
Q-Force vuole svecchiare e trasformare il genere d’azione e di spionaggio partendo da alcuni presupposti: in un ambiente come questo, dove solitamente l’uomo viene esaltato nella sua essenza mascolina, non c’è spazio per un agente gay. È per questo motivo di stampo omofobo che il protagonista, Steve Maryweather (chiamato poi sempre più spesso semplicemente Mary), viene assegnato come agente sotto copertura alla zona di West Hollywood, nota per avere una folta comunità LGBTQ+ tra le più grandi degli USA.
Passano dieci anni e Steve, con la sua squadra di specialisti tutti parte dello spettro queer, non ha mai ricevuto un solo incarico. Eppure sa che i suoi compagni meritano di mettersi in gioco in una missione: Twink è il maestro del travestimento, in quanto lavora anche come drag queen di notte; Stat è un espertissimƏ hacker; Deb è una meccanica capace di costruire auto con funzioni simili a quelle di una Batmobile e anche oltre. Pur non avendo mai messo in pratica sul campo le loro abilità, la squadra non esita a seguire Steve nel momento in cui scopre una possibile minaccia, nel tentativo di dimostrare all’American Intelligence Agency e a V, vicedirettrice dell’agenzia e mentore di Steve, di essere ottimi agenti speciali.
Il loro primo successo, però, è solo l’inizio di una serie di ulteriori missioni che porteranno la Q-Force (nome inizialmente affibbiato con intento dispregiativo dal direttore della AIA) a scoprire un complotto molto più grande di quel pensavano e per il quale dovranno cercare informazioni, mentre verranno seguiti da vicino dal miglior agente dell’agenzia, Rick Buck, sbruffone, maleducato e ovviamente bigotto.
Tutto quel che non funziona in Q-Force
Pur essendo composta da soli 10 episodi, la serie di Q-Force non raggiunge livelli di comicità pari ad altre presenti su Netflix dello stesso tipo. Le battute, infatti, risultano essere solo un enorme sforzo di buttare quante più citazioni possibili nel discorso, senza nemmeno sfruttare come si deve i tempi comici. Allo spettatore quasi non viene dato il tempo di metabolizzare una battuta, magari con riferimento a qualcosa di piuttosto specifico, che subito questa è seguita da un’altra sullo stesso livello e tono, tra l’altro piuttosto piatto.
Le reference, infatti, sono quasi tutte appartenenti alla cultura LGBTQ+ (soprattutto americana ovviamente): si va da commenti che citano pilastri dell’iconografia gay, come RuPaul’s Drag Race o Queer Eye, a rimandi ad Ally McBeal o I segreti di Brokeback Mountain, il tutto con cenni di cultura pop come un’allusione al Wakanda di Black Panther o i travestimenti di Twink che imita icone pop come Ariana Grande e Britney Spears. Insomma, un mix tra moderno e old gen che non si combinano bene tra di loro.
D’altronde uno dei produttori di Q-Force su Netflix è Sean Hayes, conosciuto per il suo ruolo di Jack di Will&Grace, il cui umorismo si basa molto sulla presenza fisica degli attori e, evidentemente, anche su vecchi stereotipi della comunità LGBTQ+ in cui tanti non si rispecchiano. Appare quindi strano che quest’ironia così datata non sia stata ricalibrata, sulla base della consapevolezza odierna, da coloro che si sono occupati di scrivere questa e altre serie comiche di successo come Parks&Recreation e Brooklyn Nine-Nine (rispettivamente David Miner e Michael Schur).
La serie Netflix di Q-Force, così, finisce per essere un ammasso di cose già viste, che non riesce ad andare oltre sé stesso, affossando sempre di più un messaggio iniziale che voleva essere positivo: la nostra sessualità, la nostra identità di genere non determinano le nostre capacità, le nostre competenze e la nostra credibilità. Nei confronti della squadra, infatti, avviene il classico isolamento e allontanamento di ciò che spaventa e si crede possa danneggiare un’immagine, segno di una società che ancora non riconosce la comunità LGBTQ+ come sua parte integrante, composta da persone normali e in grado di fare i loro lavori come chiunque altro.
A livello di scrittura, perciò, i personaggi sono statici, praticamente nessuno sembra subire una crescita interiore, rimanendo invischiato nel suo ruolo fino alla fine: per esempio, Buck continua a rappresentare letteralmente la mascolinità tossica, nonostante si possa più volte interpretare come una repressione del proprio lato più tenero. Il problema maggiore, poi, nel suo caso, è che si cerca quasi di giustificare tale atteggiamento facendoci conoscere una piccolissima parte del suo passato, come se questo desse allora la scusa per essere un idiota totale.
Tuttavia Buck non è l’unico incastrato nel proprio ruolo, lo sono anche personaggi come Twink e di conseguenza pure i loro doppiatori originali che, pur componendo un cast di star competenti (tra i quali sono presenti David Harbour di Stranger Things, oppure stand up comedian come Wanda Sykes e Fortune Meister, per citarne alcuni), sono per forza di cose trattenuti dalla sceneggiatura, che cerca di far ridere a tutti i costi fallendo miseramente.
Q-Force, una seconda stagione potrebbe risollevare le sorti della serie Netflix?
Tutto ciò significa che Q-Force è brutto e basta? In realtà no, il suo lato action è anche interessante, una volta che il mistero principale prende piede, ma viene smorzato troppo dalle battute eccessive che, a lungo andare annoiano e non si capisce più quanto siano effettivamente utili a trasformare e rimodellare un genere affermato nei suoi canoni come quello delle spy story.
Purtroppo, come dicevamo inizialmente, Q-Force è una serie uscita in ritardo di almeno 10 anni, perché ogni cosa citata porta a pensare che il mondo arcobaleno sia sempre stato e sia ancora un insieme di fricchettoni che pensano solo al sesso e la comunità LGBTQ+ non ha bisogno di questo tipo di rappresentazione, perché ha saputo elevarsi dimostrando in più occasioni, oltretutto sempre su Netflix, l’importanza delle sue battaglie. Soprattutto non avrebbe bisogno di una serie che, alla fine dei conti, sembrerebbe esser indirizzata esclusivamente al pubblico queer, senza coinvolgere dunque possibili alleati per la causa. Una causa, peraltro, che non viene nemmeno menzionata, il che fa sì che Q-Force sia un’occasione persa dalla serie e da Netflix per denunciare in modo intelligente e acuto la palese omofobia delle istituzioni.
Quel che servirebbe a Q-Force, se Netflix decidesse di dare una seconda stagione alla serie, sarebbe innanzitutto un protagonista con più presenza scenica. Steve non è niente di diverso dal solito bravo ragazzo e conosciamo davvero poco di lui come persona, così come dei suoi colleghi, di cui cogliamo qualcosa da dichiarazioni sfuggenti come nel caso di Stat.
Perciò sarebbero necessari approfondimenti sulla vita dei personaggi, con i quali il pubblico possa empatizzare non solo a tratti. Ma questo lavoro andrebbe fatto già in una prima stagione che dava l’impressione di avere un potenziale impatto positivo su tutto il suo pubblico e che invece sarà, molto probabilmente, solo fonte di ispirazione per qualche meme.