Quando una stella del cinema o una celebrità si suicida o muore di overdose, oltre al dramma della perdita in sé c’è anche il rischio del cosiddetto “contagio”
Quando una star o una celebrità si toglie la vita, questo si traduce solitamente in un enorme interesse mediatico in tutto il mondo, ma può anche essere un fattore scatenante per alcune persone che sono “a rischio suicidio”.
A sostenerlo non siamo certo noi, ma alcuni studi scientifici che nel corso degli anni hanno scandagliato queste ipotesi trovando dei riscontri.
Uno studio pubblicato sulla rivista medica PLOS nel 2018 e condotto dai ricercatori della Columbia University, sostiene che ci sono stati circa 19mila suicidi nei quattro mesi dopo la morte di Robin Williams nell’agosto 2014, suggerendo un un aumento quasi del 10% rispetto ai precedenti dati.
“I maschi e le persone di età compresa tra i 30 e i 44 anni hanno avuto il maggiore aumento di eventi di suicidio in eccesso”, ha concluso lo studio, rimarcando le associazioni tra la morte di Robin Williams e quelle per suicidio nella popolazione in seguito al traumatico evento.
Anche Christine Ma-Kellams, professoressa di psicologia all’Università di La Verne in California, sostiene, in base alle sue ricerche di studi di tassi di suicidio dopo suicidi di altro profilo, che “una delle tragedie del suicidio è che oltre alla perdita della vita c’è sempre la possibilità del contagio“.
Il cosiddetto “contagio”
E in effetti il contagio in casi come questi è particolarmente probabile tra coloro che versano già in situazione di depressione, perché i suicidi delle celebrità sembrano cambiare le percezioni sull’accettabilità e l’anormalità di un gesto estremo come quello di togliersi la vita.
Tra casi di suicidio, morti da overdose o cause non accertate, nel corso degli anni oltre al citato Robin Williams, che ovviamente fece scalpore per la caratura del personaggio, se ne contano purtroppo di numerosi sia prima che dopo, da Dana Plato e il tragico caso di suo figlio Tyler Lambert, a Jonathan Brandis ma anche nomi eclatanti come River Phoenix, Marilyn Monroe, Heath Ledger e tantissimi altri ancora, fino alla recente e tristissima scomparsa di Michael K. Williams per overdose.
A corroborare ulteriormente le ipotesi finora sostenute possiamo citare ulteriori studi
in India e Giappone, che suggeriscono un “cluster” di suicidi dopo la morte di celebrità e, in alcuni casi, persino di politici. “La segnalazione di suicidi da parte dei media è una causa comune per le ondate che possono verificarsi di tanto in tanto”, ha rilevato uno studio pubblicato sull‘Indian Journal of Psychiatry.
Ma questi possibili effetti dei suicidi delle star su determinati gruppi di popolazioni, sono soltanto a breve termine o protrarsi anche nel tempo?
È chiaro che gran parte di questi studi abbiano limiti metodologici. La maggior parte dei risultati sono derivati da dati aggregati e inoltre il core della ricerca si concentra – appunto – sull’effetto a breve termine, di poche settimane dopo l’incidenza.
Sono disponibili informazioni parziali sulla possibilità che queste morti delle star possano o meno influenzare i pensieri suicidi di un individuo nel lungo periodo, ma quel che sembra certo è che quando a togliersi la vita è una celebrità vengano colpite maggiormente dall’evento le persone vulnerabili, e tale influenza non è un fattore di rischio indipendente, ma potrebbe essere mediato da ulteriori fattori di rischio.
Per tagliare la testa al toro ci viene incontro lo studio pubblicato su BMJ, relativo proprio all’impatto a lungo termine (da 8 a 15 mesi) del suicidio delle celebrità sull’ideazione suicida.
I risultati sembrano dimostrare come l’influenza del gesto estremo di una celebrità sia indipendentemente associata a un effetto a lungo termine, piuttosto che avere una reazione scatenante sull’ideazione suicidaria. Questi risultati hanno implicazioni significative per la salute pubblica in quanto, oltre ai gruppi che sono vulnerabili, anche un ampio gruppo di persone altrimenti non vulnerabili è esposto a potenziali influenze dannose date dalla cassa di risonanza mediatica.
Cosa fare, dunque? Non possiamo certo trovare noi soluzioni, in questa sede e con le nostre competenze, ma è ovvio che dati come questi non vanno presi sottogamba.
Innanzitutto c’è il dramma del suicidio in sé per sé, della star, della celebrità ma soprattutto dell’uomo che si cela dietro il personaggio famoso e conosciuto da tutti, evidentemente stanco di nascondersi dietro una facciata di bella vita che non rispecchia quello che prova nel profondo. Questo meriterebbe un lunghissimo discorso a sé, ma se aggiungiamo a tutto ciò l’impatto che il suicidio della star può avere su alcune persone vulnerabili ecco che ci accorgiamo del dramma nel dramma.
Senza contare poi casi saliti più o meno alla ribalta della cronaca come la ragazzina che nel 2001 si tolse la vita per imitare Kurt Cobain, o altri teenager suicidi soltanto per una band sciolta, per non parlare poi dei numeri casi all’interno del fenomeno K-Pop.
Nessuno, tantomeno gli studi scientifici menzionati, vogliono accusare o puntare il dito contro qualcuno, ma semplicemente sollevare un problema su cui non c’è la giusta attenzione.
Ovviamente la morte di una star del cinema o in generale di una celebrità non può passare inosservata o taciuta, ma i media stessi dovrebbero capire come gestire al meglio, di volta in volta, il caso di suicidio di una star ma soprattutto ulteriori studi scientifici dovrebbero approfondire la situazione con dati ulteriori e sempre più precisi, indicando la via migliore.
Noi nel frattempo, constatando casi come questi, non possiamo far altro che fare luce sul problema pur nel nostro piccolo, e quando succedono eventi tragici ci uniamo semplicemente e spiritualmente al dolore dei cari.