Lo strano universo di Cordwainer Smith
Parlare dell’opera di un gigante della fantascienza come Cordwainer Smith (all’anagrafe Paul Myron Anthony Linebarger) non è sicuramente impresa semplice. Nato nel 1913, sin da giovane ha forti contatti con l’Oriente. Il padre, infatti, Paul M. W. Linebarger, era legato agli ambienti rivoluzionari cinesi di inizio Novecento. Questo portò Smith ad avere come patrigno il leader rivoluzionario Sun Yat-sen, padre nel nazionalismo cinese.
Fu inoltre tenente dell’Esercito degli Stati Uniti e docente presso la Duke University. Si interessò molto di Guerra Psicologica, tant’è che collaborò alla creazione della prima sezione a riguardo per l’esercito americano. Sotto vari pseudonimi scrisse anche poesie e romanzi non di fantascienza. Per quanto riguarda invece l’opera fantascientifica di Smith, questa risentì molto delle sue passioni e delle sue esperienze e ciò può tornare d’aiuto al lettore per capire alcuni passaggi dell’universo narrativo da lui creato, che copre un lasso di tempo di migliaia di anni, noto come La Strumentalità dell’Uomo.
Ciò che colpisce dell’opera di Smith sono gli scarsi riferimenti al mondo del Ventesimo secolo. Una scelta indubbiamente voluta dall’autore per creare una sensazione che fosse un misto di spaesamento e fascinazione, con l’ultima, il più delle volte, derivante dalla prima. Nell’universo narrativo di Smith l’uomo viene messo al centro delle vicende. La Strumentalità dell’Uomo nasce infatti per impedire l’insorgere delle intelligenze artificiali.
Da questo antropocentrismo scaturisce inevitabilmente una riflessione su cosa sia veramente umano. L’umanità ha cercato di migliorare sé stessa tramite la scienza, una scienza così avanzata da sembrare vera e propria magia. Quando è la magia a spiegare determinate cose, umanamente così irraggiungibili, diamo tutto per scontato. Quando però è la scienza a farlo, nasce come un senso di turbamento, per qualcosa che si pensava (fortunatamente) impossibile. Vengono a mancare delle certezze e determinati limiti vengono valicati. Troviamo un’umanità mutata, fisicamente e psicologicamente, capace di grandi azioni, ma moralmente retrograda sotto alcuni aspetti.
Cordwainer Smith ci mette davanti ad un popolo che sembra disposto a tutto per crearsi un nome all’interno della vastità del cosmo. Lo notiamo in racconti come I controllori vivono invano o Bruciacervello. Entrambi analizzano il tema dei viaggi nello spazio, possibili, nell’universo dell’autore, solo apportando modifiche all’uomo. Nel primo troviamo i Controllori, uomini più vicini al mondo dei morti che a quello dei vivi, costretti in tale condizione per solcare le stelle. Nel secondo seguiamo le gesta di Magno Taliano, pilota di innata bravura, in grado di pilotare una nave con la forza del pensiero, ma che si troverà suo malgrado in una situazione scomoda senza apparente via d’uscita. Al contrario degli scrittori neopositivisti, impegnati ad elencare unicamente i lati positivi di una scienza efferata, Smith ci mostra entrambe le facce della medaglia, di quanto quella stessa scienza possa privare o fallire.
Più volte il lettore si troverà nella situazione di pensare: “E se ci fossi stato io al suo posto?” ed è da qui che nasce l’elemento più horrorifico della produzione di Smith. Non è raro trovare navi gargantuesche pilotate da uomini con la sola forza del pensiero, una speciale sostanza in grado di prolungare la vita, proprietari terrieri padroni di interi mondi, animali trasformati in uomini, pianeti dalle condizioni assurde e uomini diventati armi in grado di distruggerli. Questo è lo stile di Cordwainer Smith: epico, a tratti biblico, e proprio per questo alle volte indecifrabile. Tutto ciò è unito ad un linguaggio poetico, armonioso, che trova pochi eguali all’interno del panorama fantascientifico dell’epoca. Uno degli obiettivi dell’autore era quello di creare dei “miti fantascientifici”, spesso prendendo spunto da quelli a noi conosciuti, plasmando epopee in cui l’uomo, o l’eroe, doveva fare i conti con un potere opprimente, con una condizione scomoda e limitante o con la vastità dello spazio.
Gli uomini di Smith sono creativi, capaci di grandi imprese, ma sono anche creativamente crudeli. Ne è un esempio il racconto Un pianeta chiamato Shayol, che tra gli scritti di Smith è probabilmente il più disturbante.
Un pianeta infernale
“Mi raccomando, grida forte, così sapremo che sei tu quando trasmetteranno le urla dei condannati al compleanno dell’Imperatore”
Sebbene molto grafico, la potenza del racconto viene dalla sensazione pressante scaturita da una vita condotta tra le più atroci sofferenze. Il protagonista, Mercer, si è macchiato del peggiore dei crimini: aver provato ad assassinare l’Imperatore. La sua condanna: essere portato sul pianeta Shayol, da cui nessuno fa più ritorno. Shayol è un pianeta le cui condizioni sono talmente ostili da essere stato convertito in prigione: non ci sono recinzioni, né celle, né guardie, ma, nonostante ciò, i carcerati conducono comunque una vita agonizzante.
Il pianeta non è disabitato, sulla sua superficie vivono infatti i dromozoi, dei piccoli esseri a forma di ago che assaltano, con furia cieca, qualunque forma di vita. Una volta impiantatisi in un organismo, i dromozoi lo sostentano donandogli risorse nutritive, eliminando le materie di scarto e praticamente annullando il processo di invecchiamento. Allo stesso tempo rimodulano il DNA dell’ospite, facendo sì che quest’ultimo vada incontro a mutazioni aberranti che culminano in un dolore insopportabile.
Vediamo quindi prigionieri con più parti del corpo, come toraci, dita, orecchie, addirittura interi bambini attaccati al malcapitato, ma anche parti non propriamente umane come becchi e estremità metalliche. Sul pianeta è presente un possente e gioviale omuncolo di nome B’dikkat, diventato uomo in seguito a mutazioni apportate ad un bovino, e la cui funzione è prendersi cura dei prigionieri, somministrandogli, in rare occasioni sparse in un lungo lasso di tempo, un forte sedativo che, per una breve durata, dona una forte sensazione rilassante, capace di far passare qualsiasi dolore. Questo succede ogni qual volta B’dikkat deve asportare chirurgicamente le parti in eccesso, che verranno poi riutilizzate dalla Strumentalità e dall’Impero in ambito medico. Sul pianeta il tempo passa, ma gli uomini non invecchiano e decifrare lo scorrere degli anni diventa difficile. Le ore si trasformano in mesi, i mesi si accumulano e diventano secoli. Il lettore si trova di conseguenza pressato, vittima di un senso di claustrofobia eterno, in cui le cose sul pianeta non cambiano, mentre il mondo al di fuori va avanti, senza però sapere come.
Cordwainer Smith mette in mostra il lato più oscuro dell’uomo, immensamente creativo nelle punizioni. Quando si presenta l’opportunità per i carcerati di andarsene dal pianeta, molti di loro si oppongono, assuefatti dal sedativo che B’dikkat somministrava loro, disposti a sopportare le pene più indicibili pur di vivere poche ore sotto gli effetti della droga miracolosa. L’autore non si risparmia mai sulle descrizioni più macabre, e lo fa con oggettività chirurgica, come un medico che faccia una diagnosi o come uno scienziato che elenchi gli effetti di un esperimento su una cavia umana.
Questo distacco, questa mancanza di soggettività, rendono tali descrizioni ancor più raccapriccianti. Si percepisce una mancanza di empatia in una situazione già di per sé scomoda, in cui, per quella che è la nostra natura, si cerca una via di fuga. Quando una via di fuga fisica non esiste, ci crogioliamo nell’emotività, nella speranza. In parte tale funzione viene svolta da B’dikkat, ma ci si rende subito conto di come la salvezza fugace da lui offerta sia legata solo ad un’altra prigionia, più mentale che fisica. Prima si è scritto di come Smith prendesse spesso ispirazione dai miti e dai vecchi classici per tessere l’intreccio e il mondo dei suoi racconti.
Per Un pianeta chiamato Shayol il paragone con Dante salta subito alla mente. L’inferno messo per iscritto dall’autore non ha nulla da invidiare al mondo creato dal Sommo Poeta, ma anzi forse spaventa ancora di più. Questo per due motivi: il primo è la base scientifica che fa da sostrato al racconto; il secondo è il fatto che il lettore segue le vicende non di un osservatore esterno, ma di uno dei tanti condannati, finendo quindi per immedesimarcisi. Il viaggio di Dante era più spirituale e vedeva il poeta essere messo di fronte ai suoi peccati, ma mai nella condizione di pagarne le conseguenze in prima persona. Quello di Mercer è una vera e propria prigionia, cosa che lo fa assomigliare più a uno dei tanti “intervistati” dal poeta fiorentino. Più simile a Dante potrebbe essere proprio la figura di B’dikkat, per la sua capacità di dare conforto alle vittime del pianeta, nella stessa maniera in cui il poeta, nel suo interloquire con i dannati, li strappava, seppur per breve tempo, da eterne sofferenze.
Il racconto presenta un finale che si potrebbe definire lieto, ma le vittorie regalate da Smith ai suoi personaggi sembrano sempre lasciate a metà. Sebbene infatti l’uomo, in quest’universo letterario, sia cambiato e quindi abbia anche sviluppato dei bisogni e delle necessità diversi, per chi legge il racconto queste vittorie sembrano più che altro dei contentini, qualcosa per dimenticare la sofferenza trascorsa, forse, per gli uomini della Strumentalità, data troppe volte per scontata.
Uno scomparsa prematura
L’universo di Cordwainer Smith, sebbene ostico, è sicuramente ricco di spunti di riflessione. Purtroppo, la sua prematura scomparsa avvenuta nel 1966 (morì a 53 anni) e la perdita di un taccuino contenente ulteriori idee per espandere la Strumentalità dell’Uomo ci hanno privato troppo presto di uno scrittore che aveva ancora molto da raccontare. Sebbene non abbia mai raggiunto grande fama in vita, le sue opere avrebbero poi influenzato la produzione di autori più conosciuti come Ursula K. Le Guin e Frank Herbert, proprio per la loro capacità di creare mondi bizzarri ma credibilissimi nella loro contestualizzazione.