Gli anni ruggenti, Francis Scott Fitzgerald, Thomas Savage e Il potere del cane
Avrete tutti sentito parlare dei famosi “anni ruggenti”. Gli anni ’20 del XX secolo che nessuno di noi ha vissuto ma che, nel bene e nel male, si ripercuotono ancora nel mondo attuale.
Gli anni ruggenti ci hanno lasciato in eredità l’arte di Francis Scott Fitzgerald, di Ernest Hemingway, la musica jazz, ma anche il primo cortometraggio di Topolino e, finalmente, il cinema sonoro.
Eppure quel periodo non ha rappresentato soltanto lo sfarzo di hollywoodiana e Gatsbyana memoria, quella che fu l’orgia più costosa della storia, come la definì Fitzgerald: fu anche un periodo di sfiancante e irrequieta transizione, segnato da crescenti sentimenti anti-immigrazione e dall’aumentare del gap tra le popolazioni rurali e conservatrici e quelle delle grandi città.
In America, più che mai, questo fu particolarmente evidente. Ancora oggi la grandezza e la mancata uniformità di questa nazione preserva enormi differenze tra uno stato e l’altro, ben più nette di quello che manifesta ad esempio l’Italia nel suo divario economico tra Nord e Sud, o tra le grandi città e i piccoli centri all’interno della stessa regione.
Provate a immaginare tutto questo all’ennesima potenza, in un periodo in cui peraltro venne proclamato pure il proibizionismo, in generale denso di cambiamenti strutturali, giganteschi, e capirete bene che molto spesso a incrementare il gap in quegli anni americani non fu solo una matrice economica.
La rappresentazione degli anni ’20 ne Il potere del cane
“C’è questa nozione degli anni ’20 come un periodo selvaggio in cui tutti si accaparrano tutto quello che possono avere”, afferma Nancy Bristow, docente di storia all’Università di Puget Sound. Ma quest’idea è un’iperbole di una realtà vera solo per una certa classe di americani, non per tutti.
Scordatevi quindi la concezione che quel periodo fu soltanto feste con fiumi di champagne, perché dietro quel mondo patinato così beatamente rappresentato a livello cinematografico dall’opera di Baz Luhrmann, ce n’è un altro nascosto, ma assai più ribollente, e troppo spesso nell’ombra: quello ad esempio narrato da Jane Campion, nel suo adattamento de Il potere del cane di Thomas Savage.
Gli anni qui ruggiscono assai poco, e quello che percepiamo semmai è il nitrito dei cavalli o il muggito delle vacche. Una natura a tratti bucolica, ma anche spietata e ostile, in cui le differenze di classe emergono con forza e in cui rientra il discorso precedentemente accennato circa la natura non sempre economica dietro l’evidente divario sociale.
I due fratelli George e Phil Burbank hanno discreti possedimenti, ma è evidente il modo totalmente diverso in cui digeriscono il cambiamento, con l’uno che si adagia e si bea di una condizione di benessere e l’altro che la rifiuta con tutto se stesso.
“Non mi lavo e puzzo, perché mi piace così”, afferma Phil con fermezza.
Stessa famiglia, stessa estrazione sociale, ma una differenza totale di aderenza all’innovazione.
E Il potere del cane, nella visione del romanzo di Thomas Savage, ma soprattutto nella riproposizione filmica della Campion rimarca il contrasto appena ne ha occasione, in modi che riescono a esaltarlo. Il pianoforte, tra i simboli del fiorire artistico e culturale di quegli anni, della radicale trasformazione della società americana, è protagonista a suo modo di passaggi nevralgici che nel film sottolineano tutto questo.
Caricato e portato dalla città in una landa desolata e posizionato al centro del salotto del proprietario del ranch, il pianoforte è un totem di appartenenza a una determinata classe sociale di cui George vuol sentirsi parte, a tutti i costi. Anche a quello di obbligare la sua novella sposa Rose a suonarlo per farsi bello con gli autorevoli genitori e con il governatore della città, rischiando di far incappare la donna in una pessima figura.
Durante i goffi tentativi di allenarsi in fretta e furia a suonare la Marcia di Radetzky di Strauss, il maligno cognato Phil le mostra che egli riesce ad eseguirla senza problemi col suo banjo, evidenziando ancora una volta, la differenza di classe e in un modo apertamente umiliante.
C’è tanto del lato oscuro degli anni ruggenti ne Il potere del cane. C’è tutto quanto abbiamo enunciato e c’è persino una sorta di metafora del proibizionismo, con Rose che tracanna alcol di nascosto, rannicchiata fuori casa per non farsi vedere, o che nasconde la bottiglia sotto il cuscino.
Nell’adattamento filmico dell’opera di Savage, campeggia un’aura di tragedia e inquietudine che consuma lo spettatore nelle oltre due ore di visione, sfinendolo con le musiche di Jonny Greenwood, che ripetute si instillano nella nostra mente senza darci tregua, aiutandoci a comprendere che quegli anni ruggenti, di “luce verde”, di cui F. Scott Fitzgerald ci parlava, erano per lunghi tratti molto meno illuminati e più oscuri di quel che crediamo.