Vi è mai capitato che la vostra passione per i videogiochi si trasformi in un vero e proprio impegno?
me sì, purtroppo, da un paio di anni. Ho questo enorme problema: spesso non riesco a vivere i videogiochi come mera passione, e li trasformo in un impegno che è più simile a un lavoro che ad un hobby. Mi obbligo, per esempio, a recuperare le saghe storiche. Quelle serie di videogiochi che per la maggior parte della gente sono ‘imprescindibili’ o ‘fondamentali’ per poter proferire parola su questo o quell’argomento. Non hai giocato tutti i port di Doom mai fatti? Allora mi spiace, non puoi parlare di FPS! Non hai mai giocato tutti i capitoli di Final Fantasy? E allora come fai a capire la storia del gioco di ruolo giapponese?
Sono bei grattacapi, a cui non so dare una risposta diversa dal recuperare quel determinato tipo di prodotto per poter finalmente partecipare al discorso. E quindi mi metto e faccio ricerca, come se studiassi per un esame, con un relatore della forma dell’etere e delle discussioni sui social. Molti direbbero che quella che sto descrivendo è FOMO (fear of missing out), ovvero l’ansia di recuperare al più presto un prodotto (culturale o meno) per non rimanere fuori dal dibattito collettivo, e probabilmente avrebbero ragione. Il fatto è che per il tipo di esercizio di recupero che faccio io, da tutta la serie di Doom o la trilogia di Mafia, un dibattito collettivo non esiste. O meglio, esisterà da qualche parte, ma è attualmente lontano dai miei occhi e dalle mie orecchie. È come se mi armassi fino ai denti di conoscenze nell’eventualità che qualcuno mi interroghi sulla mia preparazione videoludica; per vedere quanto sono esperto e consapevole della materia di cui sto parlando.
Attenzione: giocare ai videogiochi per me è ancora una grande passione, nonostante il tipo di impegno che mi richiedono. Ma facciamo un paio di esempi autobiografici, per praticità. Chi mi conosce è al corrente del mio rapporto tossico con la serie di Kingdom Hearts: sono giochi ritenuti dai più (o almeno, dai più della mia bolla) dei veri e propri classici, perfetti esempi delle potenzialità del medium. Da bambino non li avevo mai giocati, se non in qualche partitella qua e là giusto per saltare in giro con l’avatar per un po’. Durante la generazione PlayStation 3/Xbox 360 ricordo che andai in negozio con mia madre per comprare l’edizione Kingdom Hearts HD 1.5 + 2.5 ReMIX della serie (e già solo il titolo avrebbe dovuto far suonare più di un campanello d’allarme). Andammo poi a fare la spesa, posando per comodità il prezioso artefatto nel carrello, affianco al latte e la maionese. Ci distraemmo solo per un attimo, ma tanto bastò a qualcuno per rubare il gioco. Forse avrei dovuto interpretare questo fatto come un segno del destino, e infatti per parecchi anni saltai il recupero della saga. È solo nel 2020, su una nuova generazione di console, che decisi di tuffarmi in questi classici degli anni ’00.
Dopo pochissimo tempo iniziai a detestare quell’esperienza. Tutto, dal gameplay all’estetica, passando per la trama. Non ci trovavo nulla di bello. Una persona intelligente avrebbe semplicemente smesso di giocare, ma io continuai fino a finire entrambi i capitoli principali. È stata una follia: la cosa peggiore che mi sia capitata quell’anno. Sentivo il vero e proprio impegno di dover finire quei giochi perché, oltre al fatto che ci avevo speso dei soldi, erano ritenuti da tutti dei classici che non potevo perdere. Li avrei odiati e stroncati in qualsiasi discussione in cui sarebbero saltati fuori ma, per Dio, li avrei finiti! Come ho fatto a resistere al loro gameplay? Semplice, mi prefissavo una routine in cui ogni giorno ci giocavo un tot di tempo, obbligandomi a stare lì. Timbravo il cartellino per accendere la console, perodiare quello che facevo per un paio d’ore, per poi finalmente essere libero di andare a fare altro. Avevo assunto un tipo di impegno con i videogiochi sicuramente non troppo salutare.
Questa routine continua in parte ancora oggi, dove scarico titoli dall’Xbox Game Pass e li gioco solo perché so che devo recuperarli. E giorno dopo giorno timbro il cartellino, faccio una missione o due, e vado a fare altro. Questo tipo di attitudine deriva dal fatto che il mio unico “introito” nella vita deriva dalla cultura che fruisco, che siano videogiochi, libri, film, serie tv o dischi. Essendo uno studente universitario privo di una vera e propria indipendenza economica, la mia unica fonte di ricchezza si accumula in quello che è il mio “capitale culturale”, o meglio il mio personale bagaglio di conoscenze. Da quando ho il Game Pass, scarico e gioco una mole di titoli tale che mi hanno portato a vivere un sistema di fruizione non troppo dissimile da quello di una catena di montaggio. Scarica, gioca, cancella, scarica, gioca, cancella. Appena un gioco è ‘finito’, per me ha raggiunto il suo scopo e viene quindi eliminato. Mi sono intrappolato in un sistema capitalistico che fa della fruizione culturale la sua unica valuta. Hai giocato questo? Hai giocato quest’altro? Ogni volta posso rispondere con fierezza a queste domande dicendo che sì, quel gioco l’ho giocato.
La realtà è che sono intrappolato in un vortice consumistico. È da anni che non provo più piacere nel giocare un gioco multiplayer, perché non hanno una ‘fine’ e non posso dire di averli completati. Ho perso quel gusto, insomma, di giocare per il gusto di farlo: vagare in un open world tanto per assaporarne l’atmosfera, o fare una partita veloce con gli amici che si trovano online. Per la maggior parte dei videogiocatori che acquistano quei due o tre titoli all’anno, questo problema non si pone. Perché non sentono di dover consumare più prodotti possibili (preferibilmente nel minor tempo possibile), ma preferiscono piuttosto condensare il proprio tempo in pochi titoli ben selezionati. È il motivo per cui esistono le saghe videoludiche con uscite annuali, i grossi open world con più di 500 ore di contenuti, o ancora i titoli multiplayer con costanti aggiornamenti, gratuiti o meno. Se un tempo pure io ho attraversato la fase in cui giocavo il Call Of Duty o l’Assassin’s Creed annuale (tra le medie e i primi tempi delle superiori), ora cerco di soffocare qualsiasi tentazione che mi faccia tornare in quel vortice di fidelizzazione che mi tiene ancorato solo a quella manciata di titoli.
Eppure mi dispiace, perché sono convinto che parte dell’esperienza di alcuni videogiochi non consista nel solo raggiungimento del finale. Un titolo che amo molto è The Witcher 3, un gioco di ruolo dalla mole di contenuti immensa, che non sono convinto di essermi goduto appieno. È un titolo in cui girare e fare anche solo semplici lavori da witcher può riservare alcuni dei momenti più interessanti dell’opera. Ma mentre giocavo, sentivo di dover proseguire a tutti i costi nella storia, per dire di averlo finito e rimetterlo al più presto sul ripiano. Non mi ritrovo mai a pensare “spero che non finisca mai”, ma sempre “spero che finisca presto”.
È pur vero che una buona fetta del mercato più redditizio dell’industria videoludica è in effetti basata sul fatto che il giocatore prenda i videogiochi come se fossero un impegno; non inteso come un modo per accumulare un bagaglio culturale, ma piuttosto come luogo virtuale dove si è spinti a spendere tempo e denaro. Stiamo parlando dei free to play, certi tipi di grossi MMORPG o i gacha game, dove continui input lanciati al giocatore influenzano il suo modo di interagire col prodotto. È uno dei motivi per cui il mobile gaming rimane il mercato più proficuo dell’industria: è facile timbrare un mini cartellino giornaliero dove nel tempo libero si entra nel gioco per fare la quest quotidiana, o spendere quei pochi centesimi in grado di darci un potenziamento o un nuovo aspetto in game. Si tratta di investire quel poco tempo libero che si ha all’interno di un sistema di gioco non interessato principalmente a comunicare dei significati, o magari per interagire con meccaniche interessanti, ma dedicato invece a creare un feedback loop in grado di generare dipendenza, e assicurare così il ritorno costante del giocatore.
Mi sono accorto di questo diverso tipo di impegno videoludico quando nel 2016 tornavo da scuola e giocavo al MMO di Ubisoft The Division. Un gioco nel quale, giorno dopo giorno, andavo in giro per la mappa a cercare loot sempre migliori, svolgere le stesse quest per ricevere esperienza, e in generale ripulire le zone di gioca da “cose da fare”. Tutte queste attività però non erano altro che, appunto, “cose da fare”. Era diventato una sorta di secondo lavoro anche tornare su Destiny, dove il venerdì era ormai da rituale andare a cercare il mercante Xur, per poi dirigersi a fare la quest settimanale prima che scadesse. Non bisogna per forza concentrarsi sul mobile o l’MMO: anche le attività secondarie degli open world non mi incentivano al loro svolgimento, quando consistono in mansioni come consegnare la posta, vincere tornei clandestini di scontri fra galli o recuperare piume svolazzanti. Si tratta di attività con la mera funzione di consumare il tempo del giocatore e riempire di contenuti il prodotto, così che ne aumenti il proprio valore quantitativo.
Questi sono, semplificando, i motivi che mi hanno spinto a distaccarmi dai giochi multiplayer e dall’esplorazione di attività secondarie in titoli open world. Ed è una generalizzazione, perché sicuramente ci sono giochi che pur facendo parte di queste categorie, rispettano il tempo del fruitore con intelligenza e non hanno come unico obiettivo quello di “fare il lavaggio del cervello”. E a dire la verità, tutto questo non è neanche necessariamente un male. Capisco perfettamente il confort che si può trarre dalla quotidianità e dalla routine. Io stesso sono dipendente da Facebook da oltre dieci anni, quindi posso capire perfettamente chi trova soddisfazione in una partita veloce a Candy Crush.
Mi piacerebbe però ritrovare fiducia nei videogiochi. Avere fede che se do tutto me stesso in un solo gioco, questo mi risponda non facendo di tutto per assicurarsi la mia lealtà, ma proponendomi sistemi di gioco e situazioni con sempre qualcosa da dire. Mi piacerebbe non sentire il peso delle opinioni e delle mie lacune culturali, ma intraprendere un recupero storico di una saga solo perché realmente interessato. Mi piacerebbe vivere con meno paranoie, e smetterla di trattare i videogiochi come se fossero un impegno. E quindi è questa la soluzione? Avere più fiducia nei videogiochi, nel sistema, negli altri? Può darsi, io per ora non posso saperlo, perché sono già al prossimo gioco, e al prossimo consumo.