Ron Perlman rilascia un’intervista in cui spara a zero contro i detrattori di Don’t Look Up. In barba alla critica e alla libertà di stampa
n un’intervista a The Indipendent, Ron Perlman ha dichiarato: “Mi metto sempre nei guai, e mi piace”.
Non facciamo fatica a credergli, vista la risposta a dir poco tagliente – ma direi offensiva e fuori luogo – che l’attore dà a coloro che hanno criticato Don’t Look Up di Adam McKay, in cui Perlman interpreta un ufficiale militare.
“F****** voi e la vostra presunzione, con questo bisogno autoperpetuante di dire tutto il male di qualcosa che non sareste stati in grado di creare, solo per ottenere un po’ di attenzione. È un sistema corrotto. Ed è malato. Ed è contorto. Ma capisco che questo faccia parte del modo in cui Internet ha quasi ucciso il giornalismo. E ora il giornalismo sta cercando di fare tutto il possibile per mantenere la propria importanza”.
In qualche modo l’attore sembra non essersi staccato più dal personaggio interpretato nel film, contribuendo ad alimentare odio e allargare quella spaccatura che si è venuta a creare dopo la visione di Don’t Look Up, tra chi l’ha amato e chi, per mille motivi, non l’ha apprezzato particolarmente. Cosa che peraltro dovrebbe esser lecita.
Sostanzialmente, nel suo delirio autoritario, Perlman non vuole che le persone abbiano un proprio giudizio su un film e decidano di esternarlo. E come lui, molti altri.
Sulle modalità in cui questo spesso avviene possiamo esser d’accordo con l’attore, soprattutto quando dice che Internet abbia in qualche modo ucciso il giornalismo, e non solo. Il problema, lo sappiamo bene, non è il fatto che i social network diano la parola – scritta – a tutti (ci mancherebbe altro), ma la possibilità che ha ogni singola persona dietro il proprio schermo di sfogarsi liberamente, sparando sentenze contro tutto e tutti, senza il benché minimo rispetto per il prossimo, e nel caso specifico di produzioni cinematografiche o televisive, verso tutto il cast tecnico-artistico che ci ha lavorato o, passando dall’altra parte della barricata, nei confronti del critico di turno che esprime il proprio giudizio in maniera garbata verso un determinato prodotto.
Sempre più spesso purtroppo i social sono inondati di commenti di utenti che, in disaccordo con l’opinione del critico o più semplicemente di altri utenti, non riescono a tenere a bada le mani e devono per forza pigiare i pulsanti della propria tastiera, tra insulti e atteggiamento passivo-aggressivo come le varie reaction con la risata, che vanno sempre più di moda.
Tolto di mezzo il chiacchiericcio da bar che ormai si è trasferito su Facebook, è comunque pacifico che non si possa esser d’accordo con tutti i critici, anche perché non tutti i critici la pensano allo stesso modo (per fortuna). Eppure non mi sembra che ci scanniamo tra noi. Nella maggior parte dei casi ognuno rispetta il parere dell’altro. Molto spesso le persone si lamentano del giudizio su un prodotto, non essendo d’accordo con l’analisi di chi ha scritto una recensione o un articolo, tuttavia sembrano dimenticare che, per quanto ognuno di noi cerchi di accampare nel migliore dei modi le proprie tesi, facendo ricorso al proprio bagaglio culturale o di studi, ai tanti riferimenti dettati dai numerosi film visti negli anni, alle proprie teorie sviluppate durante la visione e magari dovute da raffronti con le precedenti opere del regista in questione, e chi più ne ha più ne metta, non ci sarà un solo modo di vedere e giudicare un film. Senza contare quanto sia importante la componente emozionale, quello che un’opera può essere in grado di trasmetterci o meno.
Aumenta la domanda, aumentano le difficoltà, diminuisce il tempo
Ad ogni modo, sarà che sono vecchio ma dal mondo da cui provengo, per fare questo lavoro abbiamo studiato, ci siamo applicati, abbiamo fatto tanta esperienza sul campo (la famosa gavetta), pur di scrivere abbiamo visto film libanesi, b-movie di ogni tipo, abbiamo dato vita a un personale stile di scrittura, e poi lo abbiamo cambiato nel corso degli anni. Non siamo degli improvvisati. Magari qualcuno può avere meno esperienza di altri, ma la farà. Sono pochi i settori lavorativi in cui, come nel giornalismo, di gavetta se ne deve fare tanta. E fidatevi, dato che sono quasi vent’anni che sto in questo campo e ne ho viste di tutti i colori.
Tra l’altro il più delle volte la critica frettolosa e non eccessivamente articolata è dettata da varie esigenze. Tipo la rincorsa al primo posto su Google, essere il primo a pubblicare la recensione e via dicendo. Il che però è sua volta strettamente connesso alle leggi del mercato della distribuzione cinematografica e televisiva.
E pensate, di problemi simili si parlava già oltre 100 anni fa, applicati al teatro.
Roberto Tessari, nel suo “Teatro italiano del Novecento. Fenomenologie e strutture 1906-1976” (Le Lettere, 1996), ci parla di industrializzazione della scena in riferimento al teatro di fine ‘800.
All’epoca la richiesta della domanda si ripercosse nella necessità di un repertorio fondato sulle strutture forti della pièce bien faite, cioè quella che in inglese viene definita come well-made play.
Se non vi è chiaro, apriamo un attimo l’Oxford English Dictionary, che la definisce come una commedia che “mira alla pulizia della trama e alla messa in primo piano dell’incidente drammatico piuttosto che al naturalismo, alla profondità della caratterizzazione, alla sostanza intellettuale…”.
L’Oxford Encyclopedia of Theatre and Performance ne approfondisce poi nel 2004 la definizione, che diventa: “una struttura drammatica progettata per fornire una narrazione costantemente divertente ed eccitante, che risolveva in modo soddisfacente le molte complicazioni e intrighi che guidavano la storia…”.
La necessità di rappresentazioni meno impegnate corrispondeva a un incremento delle stesse, ed ecco allora che torniamo a citare il testo di Tessari, il quale afferma che “l’articolo di cronaca improvvisato frettolosamente e a caldo al termine dello spettacolo, doveva risultare certo più funzionale a questo nuovo contesto generale”.
Tante belle parole con cui non voglio giustificare nessuno, ogni collega si salva da solo, ma è piuttosto chiaro che avere a che fare con un numero sempre maggiore di uscite settimanali (che anche se non devi coprire, devi vedere o recuperare), tra cinema e piattaforme di streaming, difficilmente può garantire una completezza d’analisi. Potremmo poi aggiungere la difficoltà di confrontarsi sempre più spesso con produzioni che definire well-made play è anche poco, ma il discorso qui si amplierebbe ulteriormente.
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Per tornare un attimo nei ranghi, le difficoltà nell’analizzare un film, o un qualsiasi prodotto, sono molte e se abbiamo accennato al problema tempo non abbiamo fatto altrettanto con lo spazio. Una buona analisi deve comunque raccogliere pregi e difetti di un’opera in un numero piuttosto esiguo di battute, in cui sostanzialmente deve emergere se ne vale la pena oppure no.
A conti fatto quello che interessa ai vari Ron Perlman però sembra essere questo, ovvero il giudizio finale. O meglio, il giudizio finale che deve essere positivo, altrimenti non va bene.
Ma al tempo stesso deve andar bene anche ai tanti naviganti col biasimo facile, altrimenti rischi di inimicarti una buona fetta di pubblico.
È forse per questo che sempre più spesso ci imbattiamo in critiche cerchiobottiste, di fatto inconcludenti, che non arrivano a un giudizio definitivo. Non mi sento nemmeno di condannarli, mi limito a quella che ritengo una constatazione, tuttavia – da vicedirettore di Stay Nerd – sono orgoglioso del fatto che ormai di tutte queste dinamiche contorte che ne siamo fregati, liberati, scegliendo di non fare più le recensioni convenzionali.
In ogni caso, il modo in cui Ron Perlman reagisce a tutto ciò dimostra soltanto il fatto che egli stesso sia ormai totalmente in balia di questo sistema e, da vittima morsa da Internet, ha completato infine la sua zombieficazione trasformandosi in carnefice. Perché è vero, in mezzo a un mare di critici o criticanti, ce ne sono alcuni che lo fanno in maniera poco delicata, tuttavia rispondere all’ignoranza con altrettanta ignoranza, per di più da una posizione di rilievo come la sua, significa toccare davvero il fondo.
Il disappunto infantile dell’attore di Hellboy e di tutti quelli che, come lui, non sopportano il parere del prossimo, le loro idee che – a prescindere che si ritengano giuste, sbagliate o persino folli – sono comunque idee e devono essere rispettate, non fa che gettare benzina sul fuoco ed esacerbare gli animi. Se personalità pubbliche come Perlman si permettono di insultare gli altri, senza il benché minimo scrupolo, allora siamo veramente arrivati alla frutta.