Techland con Dying Light 2 ribadisce e sottoscrive quanto il matrimonio tra zombie e Parkour possa far bene ai videogiochi
osa succede quando una struttura di gioco, e tutti gli stilemi che si porta appresso, diventa uno standard inflazionato? Beh, attraverso l’operato di molteplici team di sviluppo che negli anni ci mettono le mani sopra, se tutto va bene, a un certo punto si evolve per spirito di sopravvivenza, cercando di superare quanto meno parzialmente, molti propri limiti storici e concettuali. Questo sta fortunatamente succedendo agli action adventure che utilizzano la struttura open world. Almeno nei casi più virtuosi. Anche perché è finito il tempo della contemplazione fine a sé stessa, non basta più ai giocatori più smaliziati un’esplorazione basata sulla fascinazione ambientale e i soliti espedienti riempitivi che rubano tanto tempo e ricambiano con poco gameplay di sostanza.
È finita l’era in cui ci si accontenta di una scoperta quantitativa e non qualitativa che magari dà l’impressione di una esperienza gargantuesca, ma quasi mai intensa. Molti sono infatti i difetti congeniti di questo approccio creativo che rendono narrazione e gameplay sfilacciato, ripetitivo, pieno di momenti morti, di staticità, di sezioni ludiche scarsamente intrattenenti. Una premessa banale forse, ma importante per capire esattamente cosa rende Dying Light 2, nuova fatica di Techland, un prodotto pregiato, fresco e veramente riuscito nel suo porsi dinnanzi alla celeberrima formula del mondo aperto. Certo gran parte del merito deriva dalla formula vincente del capostipite: zombie e Parkour si è rivelato un cocktail vincente sin dal lontano 2015.
Ma se vi dicessi che tutto quello che funzionava nel primo è addirittura migliorato, e gli aspetti che convincevano meno, come ad esempio la trama, sono anch’essi colmati con contenuti di qualità? La questione in fondo è semplice: con Dying Light 2 Techland ha affinato un sistema di navigazione attraverso la mappa fantastico, il parkour, e un sistema di combattimento genuinamente divertente. Intorno a questi due elementi che sono un po’ il nucleo del gameplay, ci ha costruito un gioco e un mondo capaci di valorizzarli il più possibile. La verità è che a parere di chi vi scrive, sebbene non ci sia la perfezione in ogni componente della struttura del titolo, non c’è nemmeno un reale punto debole che vada a inficiare gli obiettivi ludici del progetto di Techland.
Non ho intenzione di annoiarvi con la solita lista infinita di meccaniche, modalità, opzioni, tipi di missioni, e feature solitamente riservata alle recensioni di questi giochi. Lo sappiamo bene ormai che questi prodotti sono bulimici nel riversare ancora e ancora miriade di accampamenti da scovare, avamposti da conquistare, sub e main quest brevi, lunghe, lineari, articolate, sfide di velocità, sfide di forza, collezionabili, equipaggiamenti (e questa volta potete costruirvi vere e proprie build) e chi più ne ha più ne metta. Anche Dying Light 2 ha di tutto e di più. Non cerca certo di emanciparsi nella sua macro struttura dalla formula open world. Ma sapete cos’è che fa la differenza? Che tutto, ogni cosa, anche l’operazione apparentemente più superficiale e meccanica è divertente, e non di meno, la città di Villedor, i suoi abitanti, le vicende che la animano sono veramente interessanti ed è un piacere farne parte.
Ma andiamo con ordine: il gameplay di Dying Light 2 è speciale perché semplicemente funziona, ed è versatile. Volteggiare sui tetti di Villedor è un piacere, ancora più intenso con la consapevolezza che nelle aride e sporche strade, laggiù, sotto i nostri piedi costantemente in movimento, c’è un vero e proprio inferno in terra, fatto di morti viventi, spazzatura, sostanze tossiche, detriti, gente poco raccomandabile. Mentre nelle altitudini dei palazzi, quelle su cui si sviluppa principalmente il gioco, ci si immerge nella piacevolezza architettonica che, tra metropoli nuova, vecchia, e relativi quartieri, offre spunti paesaggistici molto vari e per nulla scontati, in grado di trasmettere diversi tipi di atmosfera. Non lasciatevi ingannare dall’apparenza poco ispirata da tipica città post apocalittica avvolta da vegetazione e desolazione che potrebbe darvi un primo sguardo al materiale promozionale. Vi assicuro che una volta che vi ci immergete, ne scoprirete l’atmosfera caratteristica e unica, e l’apprezzerete. Sebbene dal punto di vista del realismo, e del mood orrorifico pare faccia un passo indietro, almeno nelle sezioni diurne, scoprirete che le tonalità più vivaci, sgargianti e l’estetica che vira leggermente sul fumettoso si sposano molto bene con lo spirito un po’ eccentrico del gameplay.
Aiden vola, scivola, scavalca, vira a mezz’aria, balza ai limiti delle possibilità umane. Picchia forte, con pesantezza, i suoi colpi fanno esplodere i nemici in frattaglie, li scaraventa a distanze siderali. Un feedback estetico di ogni azione che viaggia tra il verosimile e l’ipertrofico. C’è pesantezza, c’è fisica, c’è concretezza nel controllo del personaggio e nell’interazione con quello che gli sta intorno. Un controllo che si rivela veramente preciso, sofisticato, in cui puoi avere il tocco leggero o più marcato, sui grilletti del pad per salti di diversa intensità, che fanno da fondamenta di un sistema di movimento composto da una lunga serie di acrobazie, movenze, possibilità deambulatorie, che si amplieranno nel tempo e che renderanno il flow dei vostri tragitti sempre più appagante, stratificato, fluido e soddisfacente man mano che progredite nell’esperienza.
È tutto sotto il vostro controllo ma non deve mancare la concentrazione. Non pensate minimamente di andare avanti con il pilota automatico in Dying Light 2. Vi schianterete al suolo numerose volte prima di imparare a prendere le misure, gestire il vigore, destreggiarvi tra i tasti con il giusto tempismo, mantenendo quel ritmo e quella velocità che permette di superare qualunque ostacolo. Non ci sono magnetismi. Si deve saltare bene, ci si deve appendere bene. Pena una rovinosa caduta. E questo rende divertente anche la più classica scalata alla Uncharted, perché il percorso non è sempre guidato e il fatto di non inciampare non è così scontato, almeno fino a che la memoria muscolare non farà il suo lavoro. Vi pare poco? Eppure, ve lo assicuro, fa tutta la differenza del mondo. Vi stupirete inoltre di quante soluzioni di level design sono state inserite per rendere ogni traversata interattiva, variegata, stimolante. Villedor è un parco giochi irresistibile e allo stesso tempo mortale per chi pratica parkour, e per di più ben contestualizzato, visto che muoversi come ninja è il segreto della sopravvivenza di chi ha costruito sulle rovine di una città tutta una serie di strutture finalizzate a evitare gli infetti attraverso percorsi non convenzionali.
E a proposito di Uncharted, devo ammettere che gli incontri con i mostri più pericolosi e con gli umani mi hanno ricordato in qualche distorta maniera l’estrema e spettacolare mobilità degli scontri delle ultime avventure di Nathan Drake. Soprattutto quando l’ambiente intorno è scritto per specifiche battaglie, come arene in cui superare specifiche sfide, ma non solo, i combattimenti si svolgono tra calcioni volanti in faccia, schivate all’ultimo secondo, balzi da una superficie all’altra, passaggi tra funi e corde che si concludono con slanci sulla testa degli avversari. Tutto coadiuvato da una serie di elementi dello scenario che inseriscono una vena gore, sadica e divertita alla Madworld in tutti gli scontri, giusto per continuare sulla scia dei paragoni videoludici piuttosto azzardati. Precipizi da cui far volare ceffi più o meno infetti, spuntoni su cui impalarli, roba da far esplodere, lance, strumenti per richiamare zombie incavolati da sfruttare contro gli umani ostili di turno, come ad esempio i maledetti rinnegati (una delle fazioni più antipatiche che popolano la città) e ovviamente tutta una serie di armi improprie a cui potete appiccicare veleni, dispositivi fulminanti, incendiari, per spappolare, decapitare e mutilare sempre con gran creatività.
Certo, il salto di qualità non avviene proprio in tutti i comparti: l’intelligenza artificiale non è pervenuta, le animazioni non sono sempre al top, lo stealth è abbastanza all’acqua di rose e gli zombie normali sono carne da macello poco reattiva, anche se c’è da dire che i luoghi più stretti e claustrofobici, come i centri di sviluppo GRE da esplorare in profondità per il recupero di preziosi potenziamenti, si rivelano spesso un ostacolo non indifferente. In ogni caso, vi assicuro che Techland sa bene cosa è importante per farci divertire, soprattutto contro gli umani e gli zombie speciali, grazie a una serie di parry, schivate perfette, prese e mosse che unite agli elementi citati poco fa rendono gli scontri sempre piuttosto galvanizzanti per chi ama particolarmente la componente action di un gioco. D’altro canto parliamo sostanzialmente di un titolo dove l’unica strategia contemplata è quella che non interrompe il ritmo dell’azione, basata sulla improvvisazione, la tempistica, e la creatività.
E poi c’è l’oscurità, il terrore, la notte, coadiuvata da musiche ed effetti sonori studiati per farvi sentire costantemente a disagio. Non pensate che Dying Light 2 si scordi del suo contesto horror, perché non lo fa. Come nel primo Dying Light, il buio è nuovamente vero buio. Vivere la notte di Villedor diventa un’esperienza ansiogena che vi farà sentire dei veri sopravvissuti quando vi ritroverete vivi alle prime luci dell’alba. Zombie urlatori a ogni angolo della strada allertano ogni genere di creatura facendo partire fugoni estremi per la salvezza con infetti runner che usciranno da ogni buco, sfonderanno ogni finestra e vi seguiranno ovunque, e più il livello di allerta sale più verrete braccati da creature speciali di tipologia sempre più letale. Solo seminarli o ripararvi sotto le luci UV Ivi salverà, ma non sarà sempre facile. Se ci aggiungiamo il fatto che c’è un limite di tempo per quanto potete stare al buio prima di subire l’infezione a livello mortale, capirete come Techland con questo ispirato sequel sdogana il ciclo giorno-notte dall’essere il classico elemento da open world di puro flavour e ne fa una variabile importante nella struttura di gioco.
Giorno e notte sono due realtà del mondo di Dying Light 2 in cui è consigliabile approcciarsi diversamente, ma sempre in quel contesto di totale libertà che nel titolo polacco è un vero e proprio mantra. Le strade sono più sicure di giorno, l’interno degli edifici la notte. Ma potete fare quello che volete quando volete, sempre e comunque. Maggiore è il rischio, maggiore è la ricompensa, e spingervi negli luoghi più pericolosi, affrontare gli infetti più brutali, vi permetterà di avere un loot di rarità maggiore. Il crafting infatti è essenziale e tutto l’impianto di gioco lo incentiva in ogni suo elemento, cosicché c’è sempre la necessità di spingersi in ogni angolo della mappa per dedicarsi a del sano e proficuo recupero di risorse, solitamente sempre piuttosto snello e mai particolarmente fastidioso.
Cosa può deludere a questo punto, cosa può rompere il coinvolgimento di tale idillio interattivo? Il comparto narrativo, la storia, verrebbe da pensare, se non fosse che ancora una volta Techland non lascia la guardia scoperta. Lasciamo perdere il soggetto nel macroscopico che forse non è nulla di speciale. La solita storia di vendetta e di ricerca dell’affetto perduto che si incrocia con la solita situazione sociopolitica in cui sono protagonisti scontri civili tra diversi gruppi che lottano chi per la libertà e chi per il potere. Tuttavia non importa cosa racconti, ma come lo racconti. E sulla scrittura Techland ha decisamente alzato l’asticella rispetto al primo capitolo. I dialoghi sono scritti bene, anche le quest più di contorno spesso rivelano personaggi tridimensionali che ci danno uno scorcio di vita interessante in questo mondo alla deriva, e quel che è più importante, i protagonisti degli eventi principali sono sfaccettati e ambigui, in modo da non farti mai capire completamente di chi fidarti in un contesto pieno di grigi in cui bene e male sono indefiniti, sfuggenti, e ogni fazione ha apparentemente nobili intenti ma nasconde probabilmente anche un lato oscuro.
In tutto questo si inserisce la possibilità di fare delle scelte che cambiano in diversa misura la nostra storia e che ci permetteranno di decidere sia attraverso i dialoghi sia sbloccando centrali idriche o elettriche, se favorire i sopravvissuti piuttosto che i pacificatori secondo quella che ci sembra la scelta più saggia. Lo scenario della mappa quindi muterà di continuo, e aspettatevi nel racconto qualche intrigante colpo di scena e qualche momento piuttosto adrenalinico e coinvolgente. Anche a livello narrativo quindi la partecipazione è totale. Inoltre queste strutture da assegnare alle diverse forze in campo, così come la conquista dei mulini che diventano una preziosa base d’appoggio, introducono spesso e volentieri una graziosa componente di rompicapo ambientale in cui capire come muoversi per raggiungere l’obiettivo sarà essenziale.
E la grandezza di Dying Light 2 sta proprio in questo genere di intuizioni: per quanto l’avventura abbia un respiro magniloquente, sorprende nelle piccole cose, che tanto piccole non sono. Nel bilanciamento delle dinamiche, nella quantità e qualità delle meccaniche, nei dettagli di game design. Una sinfonia di attenzioni verso l’esperienza del giocatore che tengono alto l’appagamento tattile e l’immersione nel mondo di gioco. Ho giocato Dying Light 2 su PS5: l’unica modalità che ha senso di esistere è quella dedicata alle prestazioni con i suoi 60fps imprescindibili in un titolo così dinamico; le altre due, Risoluzione e Qualità, non riescono purtroppo a sostenere un framerate accettabile. Il feedback aptico del DualSense è supportato e conferisce diversa pesantezza alle nostre armi e relativi fendenti, un extra più che gradito.
C’è ben poco da aggiungere e molto da scoprire pad alla mano. Dying Light 2 è un altro colpaccio di Techland. Uno degli open world dalle tinte horror più belli e divertenti che abbia senso giocare in questo periodo. Violento, divertente e irresistibile.