Raccontare una storia ancora prima del prodotto
e avrete viste tutti, soprattutto scorrendo nella sezione video di Facebook oppure tra i suggeriti di YouTube (va’ a capire come funziona il suo algoritmo certe volte…): le pubblicità giapponesi sono uscite dai confini dell’arcipelago nipponico per conquistare anche spettatori che forse non assaggeranno mai quella merendina, né avranno mai modo di usufruire di un certo tipo di servizio.
Eppure anche per noi, nonostante un senso dell’umorismo particolarmente diverso – influenzato soprattutto dagli Stati Uniti – questi spot risultano molto catchy e coinvolgenti. Forse perché i prodotti sono sempre al centro di tutto o forse perché lo storytelling viene elevato all’ennesima potenza. Di fatto, le pubblicità giapponesi si sono sviluppate nel tempo per rendere estremamente attraente e desiderabile anche il prodotto più inaspettato.
Storia della pubblicità in Giappone
Sapevate che esiste un vero e proprio museo dedicato alle pubblicità giapponesi? È stato aperto nel 2002 e propone una mostra permanente della storia dell’advertising in Giappone con tanto di locandine, tavole e contenuti audiovisivi.
I primi segni di ciò che potremmo definire pubblicità si iniziano a vedere nel periodo Edo, quando la cultura popolare era fiorente nonostante il corrente stato di chiusura del Paese (il cosiddetto sakoku). Fu in questo periodo che nacquero le stampe ukiyo-e e si svilupparono le arti performative della geisha così come quelle del teatro kabuki e bunraku; inoltre l’urbanizzazione crescente di Edo (l’attuale Tokyo) comportò l’apertura di ristoranti, izakaya e case del tè.
Proprio questi locali e altri negozi cominciarono a porre sui loro ingressi le prime insegne, tavole o tende decorate con immagini e scritte che permettessero di identificare immediatamente l’attività; inoltre venivano stampati anche i primi “volantini” chiamati hikifuda ed e-bira, molto simili nel design alle stampe ukiyo-e, e distribuiti in eventi di aggregazione come gli spettacoli teatrali o lo hanami. Addirittura durante gli spettacoli erano gli stessi attori a fare quello che oggi definiremmo product placement, usando battute e frasi persuasive come quelle scritte da Gennai Hiraga, che possiamo considerare il primo copywriter giapponese per via del suo geniale utilizzo degli hikifuda.
Successivamente, col periodo Meiji e dunque l’occidentalizzazione del Giappone, aumentò notevolmente la capacità di stampa dando vita ai primi giornali e alle prime riviste. Ciò significò anche la nascita delle agenzie pubblicitarie, poiché ora era possibile raggiungere un pubblico più vasto per vendere prodotti e nuove tecnologie importate da Europa e America. In questo senso ricoprirono un ruolo importante nell’adozione della cultura occidentale personalità come Yukichi Fukuzawa, che promosse la modernizzazione del Giappone attraverso la pubblicazione del quotidiano Jiji Shinpo, nel quale la pubblicità era enormemente valorizzata.
Il periodo Taisho (quello in cui è ambientato Demon Slayer) testimonia la crescita esponenziale del mercato giapponese, che rispondeva alla domanda di una massa sempre più grande. Fu in questo momento che vennero introdotte le fotografie come parte delle pubblicità giapponesi, che diventarono sempre più competitive ed elaborate, influenzando fortemente lo stile di vita di tutti i giorni attraverso veri e propri lavori di copywriting come quelli di Suifu Kishimoto (che lavorò per l’azienda Glico, quella dei pocky, per intenderci) e insegne al neon in quartieri oggi conosciuti per i loro negozi altolocati, come Ginza.
Si arrivò così al periodo Showa, quando avvenne anche la Seconda guerra mondiale: l’approccio, proprio per questo motivo, cambiò radicalmente poiché il centro delle pubblicità giapponesi non furono più prodotti o servizi ma la promozione del sentimento nazionalista per dare forza a un Paese poi messo in ginocchio dal conflitto.
Cosa rende le pubblicità giapponesi così memorabili?
A mio modesto parere, è proprio dalle pubblicità del periodo Showa che hanno poi avuto origine quelle che abbiamo iniziato ad apprezzare grazie al potere di internet. Se quelle del periodo Showa si concentravano su un sentimento che si voleva venisse interiorizzato da tutto il popolo, ciò che distingue le pubblicità giapponesi attuali è il desiderio di trasmettere allo stesso modo l’essenza del prodotto pubblicizzato, per far sì che venga naturalmente assorbito dalla mente del potenziale consumatore. Si tratta di un metodo molto diverso da quello applicato in Occidente, pur avendo lo stesso scopo: le nostre pubblicità puntano di più sull’ideazione di un concept, un pensiero o una teoria attorno cui ruota il prodotto o servizio che dimostrino la bontà di quanto presentato.
Un esempio? Il primo che mi salta in mente è quello delle patatine prodotte da Calbee, le Consommé Punch, in cui un cane bipede di nome Panchi cerca di aiutare il prossimo e di renderlo felice con le sue patatine. Le sue azioni sono assurde ed esagerate eppure si capisce benissimo qual è l’intenzione finale: trasmettere gioia e far ritrovare il buon umore, che è ciò che avverrà mangiando le patatine Calbee appunto. Al centro dunque vi è l’emozione suscitata, ovvero quel senso di contentezza che dà mangiare delle patatine saporite, anche dopo una sconfitta a baseball o un brutto voto a scuola. Nulla a che vedere con il concetto che la collaborazione tra San Carlo e Carlo Cracco cercava di trasmettere, con le patatine che diventavano un finger food “gourmet”, facendo leva sulla fama del cibo italiano nel mondo utilizzando però un semplice snack.
Lo storytelling delle pubblicità giapponesi si è superato negli ultimi anni, andando oltre il puro nonsense che alcune di esse suscitavano in noi. Ora si preferisce raccontare storie con un inizio e una fine, coerenti pure nella loro assurdità. Una pubblicità in particolare mi sovviene a riprova di ciò, quella delle Sakeru Gumi: una vera e propria mini serie fatta spot, che vede protagonista una coppia (come spesso accade anche nelle nostre pubblicità), amante di queste gomme da masticare dai mille gusti diversi e che incontra casualmente ma ripetutamente un uomo che mangia la nuova versione del prodotto, molto più lunga e per questo duratura. Questa serie di pubblicità ha tutto: personaggi riconoscibili e un po’ sciocchi, il prodotto in vista ma al contempo “sullo sfondo”, un motivetto ricorrente… Insomma, conquista da subito l’attenzione del consumatore, al quale non sembrerà nemmeno di guardare una réclame ma un cortometraggio dal finale sorprendente dove non gli vengono propinati i soliti “valori tradizionali” a supporto del prodotto.
Il messaggio che si ottiene è efficace poiché si fa un uso diverso e mirato di ogni comparto: la musica non ripete per forza lo slogan o il nome del prodotto; le battute spesso contengono giochi di parole e hanno un linguaggio meno diretto e aggressivo, favorendo semmai le espressioni facciali e le emozioni; la loro durata è ridotta, quindi la scena contiene informazioni essenziali ma memorabili, senza bisogno di specificare i prezzi né di fare paragoni con prodotti simili di altre marche.
Le pubblicità giapponesi, poi, traggono ulteriore forza dal loro stesso pubblico: non essendovi particolari differenze culturali all’interno della popolazione giapponese, gli ideatori delle pubblicità sanno che tutti sono in grado di cogliere dinamiche esplicite e implicite che per noi invece risultano meno immediate; inoltre, proprio la cultura così uniforme in tutto il Paese, nel quale si sposano tradizione e modernità anche nella vita di tutti i giorni, consente di sfruttare trend stagionali che portano ancora di più i potenziali consumatori a sentirsi “toccati nel cuore” (kokoro wo utsu) da questi spot che, alla fine, saranno pur non convenzionali ma sono senza dubbio creativi e di valore.