Questione di vita o di morte?
A volte fatico a considerare titoli come Heavy Rain o Beyond: Two Souls come videogiochi veri e propri, potremmo definirli una forma di intrattenimento alternativa, che parte da un’aspirazione cinematografica e narrativa per poi essere contaminata dall’interazione con il giocatore che gli conferisce quel connotato che di fatto la avvicina al videogioco come lo intendiamo solitamente. Questa premessa la faccio perché credo sia doveroso non negare alcun tipo di dignità a titoli del genere, questa sorta di ‘avventure grafiche contemporanee’ , che sicuramente trovano in una buona realizzazione dei notevoli spunti di interesse e coinvolgimento, ma al contempo, vanno giudicati secondo dei parametri diversi rispetto al videogioco classico, pena uscirne inevitabilmente con le ossa spezzate, ma questo sarebbe ingiusto e decisamente sbagliato. Bisogna essere sin da subito consapevoli che certi tipi di “giochi” sono destinati ad un utenza molto mirata, che deve apprezzare sia la struttura del titolo prevalentemente passiva che, esattamente come farebbe nella scelta di un film da noleggiare o da vedere al cinema, avere una certa affinità con il genere di appartenenza.
Nel caso di Until Dawn, ultima esclusiva per PlayStation 4, parliamo di un genere di film a cui ancora il media ‘cugino’ non si era mai approcciato: lo slasher horror. Un connubio che a mio gusto è già vincente in partenza visto che parliamo del filone cinematografico d’intrattenimento per eccellenza, della filmografia più ‘ludica’ e meno impegnativa per definizione, insomma, del genere più adatto ad unire le passioni di cinema e videogiochi che animano spesso e volentieri all’unisono il nerd contemporaneo. Ovviamente, questa premessa non permette certo di dribblare la responsabilità maggiore che un titolo prettamente storydriven come Until Dawn si prende consciamente, quella di avere una sceneggiatura adeguata. In questo Until Dawn tra alti e bassi, e scendendo a patti con i compromessi dovuti e necessari per trasformare un film in videogioco, centra decisamente il bersaglio. Al centro delle vicende, il ritrovo di 8 amici che si riuniscono nella lussuosa baita in cima ad una montagna appartenente ad uno degli ragazzi in questione, Josh. Una vacanza tradizionale che si concedono ogni anno, con la differenza che questa volta ci si ritrova durante l’anniversario della tragica morte delle due sorelle gemelle di Josh, avvenuta proprio in quel posto e in circostanze non cosi chiare da subito. Ad un anno di distanza quindi, Josh non si perde d’animo e ricontatta tutti suoi amici per esorcizzare in qualche modo la disgrazia.
E da qui comincia il gioco. Cercherò di essere piuttosto vago perché Until Dawn esaurisce gran parte del suo valore con la scoperta di quello che riservano personaggi e storia, qualsiasi premessa in tal senso perciò, ve la evito volentieri. Dovete immaginare in effetti quello che il team di Supermassive Games voleva fare: creare un horror con protagonisti teenagers, se ci riuscite, vi assicuro che avete già un’idea piuttosto precisa di quello che vi aspetta nel bene e nel male. Cosa intendo? Beh che i protagonisti sono sicuramente un concentrato di cliché e stereotipi piuttosto notevole, ma questo non significa affatto che siano mal caratterizzati, e in effetti non lo sono, risultano invece piuttosto credibili, o meglio, non hanno nulla da invidiare a quanto vedreste in una produzione cinematografica similare di discreta fattura. E questo è il più grande pregio di Until Dawn, non è un cattivo horror, si dipana attraverso i 10 capitoli che lo compongono con un buon ritmo, sapendo dosare bene attimi di tensione e jump scare, che vi assicuro non sono sempre prevedibili. Giocoforza, per sviluppare la sceneggiatura che come ogni horror che si rispetti deve innanzitutto creare un contesto e mostrare le varie relazioni tra i personaggi per farceli conoscere meglio, risulta inizialmente molto lento, e lo ammetto, i primi 2 o 3 capito sono tutto sommato soporiferi, ma poi fortunatamente gli eventi ingranano e difficilmente vi annoierete fino alla fine. La duplice natura di Until Dawn (film e videogioco) ha in realtà dato un’ulteriore marcia al coinvolgimento: trattandosi di un prodotto che deve durare un po’ (circa 8 ore) e non esaurirsi nell’arco dei canonici 90 minuti cinematografici, ha costretto gli sviluppatori a buttare nel calderone della sceneggiatura parecchia carne al fuoco, linee narrative verticali e orizzontali che si confondono ispirandosi all’immaginario di genere in toto. Non manca nulla in Until Dawn e fino alla fine non capirete mai bene dove vuole andare a parare con le sue mille influenze prese da film anche molto diversi tra loro come Venerdi 13, Scream, Paranormal Activity, The Descent, Wrong Turn e chi più ne ha più ne metta.
Il problema di una scarsa coesione tra i vari elementi un po’ si sente, ma laddove sento molta gente lamentarsi, io invece l’ho trovata una scelta azzeccata per due motivi: il primo è che rende meno ammorbante il susseguirsi degli avvenimenti e permette di esplorare più location e situazioni, riempiendo a dovere tutto il gioco, quando magari focalizzarsi su un contesto più omogeneo avrebbe significato dilatare troppo le cose e rendere tutto più ripetitivo. Il secondo e più importante motivo è che permette effettivamente di essere sopraffatti dagli eventi, di allontanarsi seppur leggermente dalla prevedibilità genetica del filone e riuscire a stupire lo spettatore con qualche colpo di scena o plot-twist magari non brillante e sempre derivativo, ma comunque inaspettato. Insomma Until Dawn, come storia, funziona. E allora dov’è che inciampa clamorosamente? Parliamo finalmente di gameplay e scelte. Come ben saprete, in questo titolo ci è stato promesso (come al solito) che ogni azione avrebbe influenzato lo svolgimento del gioco, anche in maniera massiccia, con la possibilità di portare in salvo tutti i protagonisti del gioco o al contrario decretarne la morte fino all’ultimo. Come stanno effettivamente le cose? Dall’alto dei miei 3 giri completi ad Until Dawn posso svelarvi la verità che purtroppo, è piuttosto deludente. Ad ogni nuova partita, tutto l’incipit del gioco non farà che cambiare solo marginalmente quello che vedremo su schermo, a prescindere dalle decisioni prese. Avremo qualche dialogo leggermente diverso si, e forse -ma non necessariamente- qualche elemento dello scenario modificato, ma il gioco rimane sostanzialmente lineare fino almeno ai due terzi di esso. Moltissimi Quick Time Event sembrano apparentemente decisivi ma in realtà non porteranno nessuna conseguenza o al massimo qualche variazione non diretta sugli eventi futuri. Inoltre è chiaro che tra gli otto ragazzi ci sono personaggi estremamente più facili da perdere (in maniera sempre piuttosto suggestiva e fortunatamente splatter quanto basta) in quanto meno importanti per la trama, ed altri che qualunque cosa farete, arriveranno comunque verso la fine. Giunti agli ultimi capitoli fortunatamente le cose miglioreranno e un comando o una scelta sbagliata comporteranno effettivamente e inevitabilmente la morte di un personaggio, ma anche in questo caso, dispiace costatare come le conseguenze sugli eventi immediatamente successivi saranno veramente poca cosa e soprattutto come non sempre gli amici reagiranno in maniera credibile. Insomma, purtroppo nessuna rivoluzione da questo punto di vista ma d’altro canto ci speravo poco…
L’interattività con il mondo di gioco, composto dalla baita innevata e tutte le zone limitrofe (manicomi, miniere e altre 2 o 3 location molto lugubri), è strutturata in maniera classica e non esattamente come un “laser game” automatico. Dovrete percorrere manualmente gli scenari di gioco (tutti invero molto ben realizzati) “esplorare” e cercare indizi che permettono di capire meglio gli antefatti della trama. La vena cinematografica si palesa invece ogni qualvolta che raggiungete un punto chiave, a quel punto come intuirete è tutta questione di andare a destra o sinistra, dire questo o quello, salvare una persona piuttosto che l’altra, premere il tasto al momento giusto e cosi via. A dire il vero, quando sarete al comando diretto di uno dei personaggi (che si alterneranno da uno all’altro per esigenze di narrazione), è talmente riuscito il design ambientale intorno a voi e sono così suggestive le passeggiate tra le tenebre con questa telecamera semi fissa alla Resident Evil vecchia maniera, che non sarebbe stato male avere fasi meno scriptate di tanto in tanto, con la possibilità di difendersi o scappare in tempo reale. In effetti questo svilisce un po’ la libertà di poter osservare quello che c’è intorno a voi, di illuminare i pertugi più tetri delle location, e ammazza anche un po’ il senso di tensione (non per nulla relegato solo ai jump scare) visto che sapete fin da subito che finché non parte un “filmato” niente può accadervi. Sono presenti inoltre 2 menù dall’utilità, col senno di poi, piuttosto risicata: uno che mostra gli effetti delle nostre scelte nei momenti che provocano il cosiddetto “effetto farfalla” (ovvero azioni che hanno determinate reazioni, per lo più poco dirette o marginali) e un’altro che mostra come le vostre scelte influenzano l’indole dei protagonisti e i rapporti con gli altri, modificando di fatto l’atteggiamento degli stessi che si concretizza con dialoghi più o meno variabili.
Infine ogni tanto troverete a terra dei totem che se esaminati vi permettono di vedere un velocissimo frangente dei possibili eventi futuri, dandovi l’occasione, in caso intuiate a quale situazione si riferiscono, di agire in maniera più riflessiva e meno istintiva. Una trovata carina ma ancora una volta poco incisiva nell’economia del gioco. Chiudo con un commento sul lato tecnico, assolutamente valido e riuscito, scenari e personaggi sono estremamente ben realizzati. Questi ultimi inoltre godono di una grande espressività e solo qualche animazione un po’ fuori posto di tanto in tanto spezza l’illusione di trovarsi di fronte ad un vero film. Consiglio comunque caldamente il doppiaggio inglese, non solo perché superiore a quello comunque accettabile italiano, ma perché quest’ultimo ha evidenti problemi di volume che minano ahimè l’esperienza.